Cos'è Ultima notte a Soho per la filmografia di Edgar Wright?

Edgar Wright ha fatto di Ultima Notte a Soho un film insolito. Come collocarlo nella sua filmografia: un cambio di rotta o in continuità?

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Quanti aspiranti registi vorrebbero essere come Edgar Wright. Uno in grado di fare film personalissimi, di divertirsi con la forma cinematografica sin dal suo esordio, di essere amico dei più grandi e benvoluto nell’industria. Ma anche un regista da festival, che riesce a gestire produzioni di genere che hanno creato un culto fortissimo; tutto questo parlando un linguaggio sia arthouse sia mainstream. Eppure quasi nessuno ci prova ad essere come Edgar Wright. Forse perché non possono (non è da tutti avere l’accesso che ha lui), forse perché non riescono.

Arrivati a Ultima notte a Soho, il suo film più insolito, ma anche perfettamente inscrivibile in un coerente percorso artistico, è chiaro che il regista è in totale e costante sfida con se stesso. C’è la trilogia del cornetto, che l’ha imposto come uno dei più bravi di sempre a gestire i meccanismi comici attraverso il montaggio, a rimescolare suggestioni per ottenere una risata non da parodia di altro, ma ottenuta dal film stesso. C’è la lunga pausa di riflessione, che è stata la lavorazione di Ant-Man per i Marvel Studios mai portata a termine. Tempo perso, ma quanto è importante per tutto ciò che verrà! Da lì in poi si costruisce ancora di più la sua identità e la sua missione: allargare gli orizzonti, sperimentare, fare. In questo sviluppo c’è tutta la crescita del regista. Partito dal cinema indipendente britannico e trasformarsi in un regista mondiale, senza più barriere.

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Basta pensare a come racconta Londra ne L’alba dei morti dementi e in Ultima notte a Soho. Il primo è scritto e diretto da una persona che in quei luoghi ci ha vissuto, ha costruito amicizie e rotto amori. Prova verso quelle strade un sentimento disilluso, realistico, pratico e solo infine nostalgico. Soho invece si trasforma in una cartolina vintage. Colorato con le luci della fantasia più romantica, di chi sogna di visitare quei luoghi in quell’epoca (gli anni ’60). È un modo di inquadrare aperto a tutti, che conferma le aspettative di chi quei luoghi li ha solo sognati. Cioè gran parte degli spettatori che vedranno il film da ogni paese del globo.

Sarebbe sbagliato usare però questa evoluzione come argomento in favore di un declino nel suo stile. Si cambia; c’è chi lo fa ogni decade, e chi lo fa a ogni film. Edgar Wright se l’è imposto come proposito lavorativo per tutte le sue opere.

edgar wright kevin feige

Ultima notte a Soho attinge a suggestioni cinematografiche che il regista non aveva mai toccato. Era già stato nell’horror, con Romero ovviamente, ma anche con quella leggera inquietudine tragica (e comica) che pervade Hot Fuzz e La fine del mondo. Non ci si era mai buttato con entrambi i piedi. Questa volta non contamina l’orrore con la comicità ma lo fa con il thriller. Guarda per la prima volta a Dario Argento e Roman Polanski e fa un È nata una stella deformato dall’identificazione con il doppio. 

È anche il suo film più patinato, quello che più esplicita le pretese intellettuali e si compiace delle stesse. Fino a Baby Driver il gioco era nasconderlo: quello che faceva era intelligentissimo e agiva su più livelli di senso, pretendendo però di apparire sciocco al 100%. Stava agli spettatori attenti iniziare a scavare. Ultima notte a Soho grida invece simboli e metafore. Ammicca e si fa bello, come prima di un’importante ballo. Flirta con il musical (che ossessione la cover di Downtown!) e pulisce le inquadrature, satura i colori. Tutto l’impianto grafico ricorda qualcosa, che sia Peeping Tom o Suspiria, eppure non sembra nulla di già visto. 

Anche se Ultima notte a Soho si trova in una posizione distante e ai margini rispetto alla filmografia di Edgar Wright come l’abbiamo conosciuta fino ad ora, è perfettamente coerente con la sua ricerca. Che sia più o meno riuscito rispetto ai suoi predecessori è un altro discorso. 

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Perché in questa forma imprendibile e accattivante c’è tutta la sostanza del suo cinema. Quello che sa danzare con il passato facendo dei passi però totalmente futuribili come linguaggio cinematografico. Non c’è un paragone nei classici che cita rispetto a come monta le scene e al ritmo interno che impone. Però la sua visione è intrinsecamente legata alle frequentazioni cinefile che hanno composto la sua dieta mediatica. Edgar Wright vede, processa, rielabora e poi mette nei suoi film il sapore. Non una citazione pedissequa, ma l’atmosfera che ha respirato vedendo le opere. Un modo di omaggiare ben diverso da quello di Tarantino (questo sì, emulato da più parti con successi alterni). 

Quando con Scott Pilgrim vs. the World ha fatto incursione nel mondo dei fumetti, quello che gli interessava era sperimentare con il materiale visivo. Oltre, ovviamente, alla forma ritmica scandita come una tavola degli albi. La forza di quel film è tattile e sensoriale, deve trasmettere il profumo della carta, pur senza tradire la pura essenza di opera audiovisiva. 

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Anche con Ultima notte a Soho, Edgar Wright si sfida a saltare in un nuovo genere, per rimescolarlo con altre suggestioni. È l’unico che riesce a far convivere il passo onirico di Midnight in Paris con Suspense di Jack Clayton e ad avere una propria identità originale. E quindi lo fa ancora, rifiuta ogni zona di comfort e rilancia per girare qualcosa che non ha mai fatto prima. Un “one shot” dopo l’altro, Wright sta saltando di qua e di là nella storia del cinema per coprire più terreno possibile.

Con il suo ultimo film non crea quindi una scissione nella sua filmografia. Anzi, ci fa capire più esplicitamente che gli interessa toccare tutto, contaminare e "sporcare" i generi. Non vuole essere un regista che trova il suo capolavoro dopo anni in cui ha fatto e rifatto lo stesso film, e gli va bene essere uno che rischia di arrivare a fine carriera senza aver mai avuto un trionfo assoluto. Il punto è saper fare tutto bene, mettere il proprio amore per il mezzo in ogni sua sfumatura. Non è nemmeno un regista cannibale (come direbbero in letteratura), semmai è onnivoro: assaggia di tutto per fame, cucina di tutto per voglia di sapori diversi.

È per questo che servirebbero più Edgar Wright.

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