Cosa non funziona in Venom e come avrebbe potuto essere un film migliore?
Venom è stato uno dei fallimenti di maggior successo degli ultimi anni. Ma che cosa non ha funzionato e come avrebbero potuto sistemarlo?
C’è infatti ben poco da salvare tra le decisioni prese dal regista Ruben Fleischer che ha fatto un’origin story insipida e frettolosa, senza alcun gusto se non quello dei burrosi popcorn. Un ritorno al passato, a quel cinema “di effetti speciali” tipico degli anni ’90 che nascondeva dietro al “senza pretese” una povertà di visione sconcertante. James Gunn con il suo The Suicide Squad ha dimostrato che il paradigma non deve essere necessariamente così. Anzi, che ci deve essere sempre una grande mano d’autore che tiene la bussola orientata, anche per fare il più becero film confusionario di intrattenimento.
Per prima cosa occorre dare atto a Fleischer di essere partito su una macchina con una ruota già sgonfia. Ovvero: non ci può essere Venom senza Spider-Man. Anche per uno spettatore totalmente a digiuno dai fumetti è evidente quanto il simbionte sia lo specchio oscuro del supereroe. È Peter Parker il centro emotivo di tutte le storie, il simbionte è il contraltare malvagio o la spalla, ma difficilmente in grado di reggere da solo lo status di supereroe. Lo richiama fisicamente e ne distorce le forme. Il design, geniale e perfetto su carta, perde sullo schermo quella dimensione “creepy” di un Uomo Ragno demoniaco e deforme. Senza di lui Venom è solo un alieno, uno dei tanti mostri cinematografici che, così da solo, nemmeno fa paura.
Più che un film, questo è palesemente un tentativo per ottenere un qualcosa di non ben definito. Buttiamo l’amo e vediamo cosa viene su. Siccome il mulinello della canna da pesca ha iniziato a girare all’impazzata attaccato a una montagna di soldi, ecco trovato il giusto stimolo per mettersi a un tavolo e ragionare attorno al sequel. Ma senza alcuna pianificazione o progetto a lungo termine.
Si sente la mancanza dell’arrampicamuri come controparte umana (e buona) anche sotto l’aspetto emozionale. È sempre la solita solfa: non può esserci la luce senza il buio e nemmeno il contrario. Anche quando si ha come protagonista un villain serve un qualcosa che lo renda amico, che ci porti dalla sua parte. In questo caso è Eddie Brock, dotato della faccia di Tom Hardy che fa di tutto per essere simpatichino.
Come spalla comica ha il suo simbionte, alieno mangia cervelli, ma dotato di umorismo irriverente alla Deadpool. Entrambi sono insufficienti e forzati. Sono un mix che non funziona mai veramente. Perché Eddie fa scelte contro ogni logica (“non toccare niente!” e lui tocca). Perché Venom rivela solo negli ultimi minuti di essere un emarginato nella sua terra, di avere quindi un ruolo in una società extraterrestre che non ci è dato nemmeno di intuire. Due bambinoni, senza desideri e che si lasciano accadere le cose addosso.
In Venom c’è poi un fortissimo contrasto tra le scelte visive, l’estetica adottata dal film, e l’atmosfera interna che andava sanato. La fotografia valorizza il nero, la notte e i toni contrastati. Al tatto è un thriller fantascientifico a tinte horror. La schizofrenia della doppia identità di Venom è una sorta di dottor Jekyll e Mr. Hyde, con tanto di sguardo nello specchio per vedere il proprio lato oscuro, il parassita ospite del corpo. Quanto sarebbe stato più affascinante se si fosse concentrato sul body horror, sul tema del corpo posseduto, modificato e trasformato in una macchina assassina! Invece niente, salvo ripetere allo sfinimento la stessa scena della rapina al negozio per evidenziare giusto quel minimo cambiamento.
Questo perché basta alzare la luminosità del film per trovare dietro a questa apparenza dark, un’operazione solare. Un sorridente film per grandi e piccini, che cammina in punta di piedi per non scontentare nessuno. Venom, finge di averlo, ma in realtà non ha target. Vuole strappare i biglietti di tutti: giovani, adulti, famiglie. Così è stato, ma sacrificando sull’altare delle ricerche di mercato ogni personalità.
Si è perso così il senso di tutta l’operazione. Il basso budget avrebbe permesso rischi maggiori, che il film non ha avuto il coraggio di prendersi in carico. La distanza dall’Uomo Ragno avrebbe potuto rendere Venom un film altro… ovvero slegato dai meccanismi fumettistici, dalla fedeltà al personaggio, da un’identità precostituita. Fuori dalla correttezza istituzionale, insomma. Poteva essere La Cosa di Carpenter, e invece si è inserito in scia di quell’atmosfera Marvel ben nota, senza avere però un decimo della sua energia innovativa. Poteva adottare i toni lovecraftiani della run a fumetti di Donny Cates. Invece ha trattato Eddie Brock come semplice veicolo per l’indicibile e il misterioso, mai adottandone il punto di vista di creatura fragile e impotente.
È giusto che Eddie Brock sia la controparte umana da seguire, ma è un delitto che il suo volto sia più cercato di quello del simbionte. L’idea di non mostrare tutto e subito, di suggerire per la prima parte quella che sarebbe poi la forma finale dell’antieroe, è corretta. Però non è fatta con vera convinzione. Fa vedere troppo quando dovrebbe solo dare antipasti, e ci concede troppo poco quando lo show doveva passare nelle mani di Venom.
Il terzo atto. Un mostro nero, che combatte una massa informe grigia nella notte, mentre un razzo, grigio anch’esso, decolla. Una sceneggiatura scritta non per immagini, ma per eventi. Colloca lo show-down finale nel punto più generico possibile. Anche il gusto per l’orrore cosmico, per i mostri che combattono, si perde nella confusione del buio in computer grafica. Tutto è confuso, non si ha mai un senso di misura, di forza, e nemmeno del peso delle creature. Vediamo troppo spesso i volti degli umani, che affiorano tra la superficie vischiosa. E non ha senso.
È come se Guillermo Del Toro avesse girato Pacific Rim con la voglia di fare dei bei ritratti delle espressioni dei suoi attori, lasciando in secondo piano i kaiju e i robot. Serviva un Venom più subdolo, alieno sotto la pelle. Invece è scritto come l’equivalente di un terrestre, solo molto più forzuto e coatto. Poteva essere un film sporco, filosofico, infernale come il Daredevil di Netflix. È stato un tentativo di compiacimento dei presunti gusti dell’audience. Un film dietro lo spettatore, mai davanti.
Persino Carlton Drake, il Riot di Riz Ahmed, è assurdo nelle sue motivazioni e non necessario. Perché iniziare la storia di origini caricando così tanto di passività i personaggi? Nessuno agisce, tutti subiscono. Il simbionte è catturato e imprigionato da altri. Eddie entra in contatto con lui senza volerlo. Scappa senza sapere cosa sta facendo. Riot, il nemico, è l’unico a sapere veramente cosa vuole. A scegliere e ad avere dilemmi, per quanto quello etico di Drake (cioè se fare esperimenti su cavie umane per il bene della scienza) sia di facile soluzione.
Il grosso problema è proprio questo: l’ansia di dare tutto senza mai trovare veramente una direzione. Fleischer cede alla tentazione e fa l’errore imperdonabile di far vedere i simbionti nella loro forma semi-umana ancor prima di farci incontrare Venom.
Villeneuve aspetta quasi due ore prima di inquadrare a schermo pieno Shai Hulud nel suo Dune. Ed è una scelta di grande sapienza perché costruisce attesa, aspettative, mantiene viva la tensione e racconta la mostruosità attraverso i dettagli. Piccole parti che formano il tutto nella menti di chi guarda. Invece la regia di Venom accumula simbionti su simbionti senza goderseli mai nell’inquadratura. Sembrano impalpabili, aggiunte posticce. Non per la scarsa qualità degli effetti visivi, bensì come toppe messe su inquadrature catturate in un set non consapevole di star facendo un film su degli alieni.
Venom è uno dei fallimenti di maggior successo degli ultimi anni. Però è anche un passo indietro clamoroso nell’evoluzione del genere. Con il seguito, Venom - La furia di Carnage che promette grandi incassi (e colpi di scena importanti) il futuro del personaggio è comunque roseo. Il vero problema è però un altro: siamo sicuri che sia questo l’Eddie Brock\Venom di cui vogliamo seguire le avventure in altri film?
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