Cosa ci è rimasto di Game of Thrones a un anno dalla sua conclusione

Un anno fa veniva trasmesso il finale di Game of Thrones: al netto di meme, petizioni, premi, polemiche e di tutto quanto è stato detto, ci manca tantissimo

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Un anno fa in queste ore si concludeva una delle maratone creative più lunghe, sfiancanti e soddisfacenti della storia della televisione moderna – o se preferite una formulazione più esplicita, il 19 maggio 2019 andò in onda su HBO l'episodio finale di Game of Thrones, o Il trono di spade, o comunque vogliate chiamare quella serie che ci ha insegnato che chiedere un prestito a una banca è più sconvolgente che fare sesso con un congiunto (o decapitarlo, o buttarlo in mare).

Come si dice in questi casi, su Game of Thrones si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto: è la serie più importante di sempre; è un disastro creativo che ha perso la sua strada quando si è staccata dai libri da cui era tratta; è un pezzo di storia della televisione; verrà presto dimenticata perché non era altro che pornografia della violenza e del dolore; Benioff e Weiss hanno creato un’opera indimenticabile; Benioff e Weiss hanno trattato malissimo i loro stessi personaggi soprattutto in vista del traguardo, quando hanno buttato all’aria otto anni di paziente costruzione narrativa in favore di espressioni inglesi come “plot twist”, “shock factor”, “you know nothing” e “Dracarys”; Daenerys è l’unica regina; Sansa è l’unica regina; dovevano vincere gli zombie di ghiaccio; chissenefrega degli zombie di ghiaccio, a me interessa la politica; chissenfrega di Dorne; dovevano dedicare più spazio a Dorne!; e gli elefanti della Compagnia Dorata?; Bran è il corvo con tre occhi?

(OK, quest’ultima in particolare viene ripetuta ossessivamente per decine di episodi quindi almeno su questa non dovrebbero esserci dubbi o discussioni)

Quel che è certo è che una serie che per anni è stata indicata come il non plus ultra della TV ad alto budget e con aspirazioni altrettanto alte non ha lasciato la scena tra l’acclamazione universale, ma accompagnata da un concerto di pianti disperati (di chi ne avrebbe sentito la mancanza) e di sonore pernacchie (di chi crede che D&D abbiano buttato a mare un potenziale capolavoro e dovrebbero quindi venire messi in quarantena e impedito loro di scrivere qualsiasi altra cosa finché non si tirano fuori la testa dal fondoschiena) – oltre che ovviamente di petizioni per riscrivere il finale, un’idea talmente balzana che indipendentemente dalla vostra opinione sull’ottava stagione di Game of Thrones andrebbe studiata e discussa all’interno di una discussione più ampia sulla questione “a chi appartiene un’opera, all’autore o al suo pubblico?”.

Resta il fatto che un anno fa Game of Thrones è finita, e da allora stiamo ancora aspettando che la TV ci regali il suo promesso erede, perché se c’è un’idea con la quale è difficile non essere d’accordo è quella che la serie tratta dai libri di Martin abbia non solo riportato un po’ di attenzione sul fantasy in senso più ampio – un’operazione culturale che ha avuto sul genere lo stesso impatto della trilogia di Peter Jackson della quale non serve fare il nome, ma applicato alla TV invece che al cinema – ma abbia insegnato come sia possibile farlo senza risultare ridicoli (e qui una voce urla “Shannara!”) o ostinatamente criptici e concentrati esclusivamente sul fandom. Game of Thrones è (stata) una serie universale, al punto che una buona fetta di pubblico, quella che considera il genere una roba da bambini, si è dovuta rifugiare dietro il “non è veramente un fantasy!” per giustificare la propria passione per questa storia di morti viventi (relativamente pochi), vivi morenti (tantissimi) e draghi (che però non sono draghi fantasy).

La domanda da porsi a questo punto è: cosa ci è rimasto di tutto questo? Non tanto “ne è valsa la pena” – non importa quanto abbiate odiato le ultime stagioni, è innegabile che il viaggio sia stato lungo e ricco di soddisfazioni e che abbia segnato indelebilmente la cultura pop contemporanea quanto l’hanno fatto Lost o Breaking Bad –, quanto “che effetti ha avuto Game of Thrones su di noi che siamo qui ad aspettare frementi la serie Amazon sul Signore degli anelli e la nuova stagione di The Witcher su Netflix nella speranza che possano riempire quel buco a forma di trono che ci è rimasto nel cuore?” A un anno dall’elezione del più improbabile re che Westeros abbia mai avuto, che cosa ci ha lasciato la serie di Martin, Benioff, Weiss e di svariate migliaia di persone che hanno firmato una petizione su Change.org? Proviamo a capirlo.

L’importanza di essere tonti

Game of Thrones è stata una serie il cui impatto drammatico era in gran parte affidato a fragilissimi equilibri di potere, astutissimi voltafaccia, tradimenti, trabocchetti e tracotanza – in pratica House of Cards se al posto del fittizio presidente Spacey ci fosse stato l’attuale presidente degli Stati Uniti. Era la serie del crudele genio politico di Ditocorto, che si è rivelato infine troppo intelligente per sopravvivere; degli intrighi di palazzo targati Lannister, crollati miseramente sotto cumuli di macerie generati da un’arma di distruzione di massa; di Tyrion Lannister, finissimo stratega con l’incredibile superpotere di pensarne una più del diavolo (quindi 667) e di azzeccarne, a conti fatti, forse 5 o 6. O almeno così sembrava fino a un certo punto: con l’ultima stagione in particolare, Game of Thrones ha cambiato faccia e con essa il suo messaggio. A cosa serve essere furbi se hai i draghi? Cosa contano i piani militari se basta essere un fattone studente di filosofia al quinto anno fuori corso per diventare re di tutto? Chi lo dice che i grandi eroi devono avere un QI, uno qualsiasi, quando poi ti è sufficiente strillare in faccia a un drago zombie di ghiaccio per evitare di venire incenerito? Magari è vero che Jon Snow non sapeva nulla, ma è altrettanto vero che è questo che gli ha salvato le penne e l’ha reso un eroe. Sette stagioni di complotti e complottismo culminate in una giravolta e in una celebrazione dell’essere tonti: se pensate che in giro c’è gente che consiglia di farsi le iniezioni di disinfettante o di mettersi una lampadina in bocca per combattere un virus è chiaro che Weiss & Benioff ci avevano visto lungo.

L’importanza della famiglia

E soprattutto dell’amore per la propria famiglia: il più grande genocidio della storia dei Sette Regni, se escludiamo tutti quelli precedenti perpetrati dallo stesso personaggio nel corso delle stagioni precedenti ovviamente, avviene per il motivo più idiota del mondo, e cioè “la zia si vuole fare il nipote ma il nipote la vede più come un’amica e la sua regina”. La famiglia è importante, ci ha insegnato Vin Diesel. Fare sesso con la propria famiglia lo è ancora di più, ci hanno insegnato tra gli altri i personaggi interpretati da Emilia Clarke, Kit Harington, Lena Headey e Nikolaj Coster-Waldau.

Nessun luogo è lontano

Lo scriveva Richard Bach, l’abbiamo imparato anche noi grazie all’ottava stagione di Game of Thrones: non importa dove tu ti trovi in un qualsiasi momento della giornata, se la tua presenza è richiesta dall’altra parte del mondo ti basta desiderare fortissimo di raggiungere la tua destinazione per ritrovartici nel tempo di un paio di stacchi di montaggio; vale per gli esseri umani, per gli uccelli, per i draghi, per le gigantesche catene, anche se per un motivo non ancora del tutto chiaro neanche agli esegeti dell’opera di D&D non vale se ti chiami Gendry e da mesi stai remando in mezzo al mare con la tua barchetta nella speranza che il Dio dei Plot Point si ricordi di te.

I maschi hanno il pene, le femmine la vagina

Con tutte le conseguenze del caso: per esempio, se sei la guerriera più fichissima del reame che da sola potrebbe spazzare via interi eserciti con la sola forza della tua spada e della tua incazzatura, ma hai anche la sfortuna di possedere una vagina in un mondo nel quale è impossibile uscire di casa senza dover fronteggiare almeno otto tentativi di stupro (in pratica il Medioevo in Europa, o meglio, come un americano si immagina che funzionassero le cose nel Medioevo in Europa), tutta la tua forza e indipendenza si scioglieranno come neve al sole non appena Il Tuo Amato annuncerà che vuole abbandonarti per andare a scoparsi sua sorella, lasciandoti sulla soglia di casa, sola e con gli occhi gonfi di lacrime, a guardare un cavallo che si allontana nella notte. O anche: se sei l’assassina più letale del reame che da sola è riuscita a massacrare un intero salone pieno di gente senza quasi dover alzare un dito, ma hai anche la sfortuna di possedere una vagina, tutti i tuoi piani di vendetta e il tuo destino manifesto e gli omicidi ai quali hai dedicato la tua intera esistenza finiranno in secondo piano di fronte a una Figura Paterna che con tono saggio e un po’ brusco ti consiglia di lasciar perdere e dedicarti ad altro tipo boh, ad avere la vagina. Come si legge nel fondamentale saggio Usi, costumi e teoria gender a Westeros, «non importa che tu abbia un pene o una vagina, a meno che tu non abbia una vagina, nel qual caso mi spiace per te, avessi avuto un pene ti sarebbe andata meglio».

Quello che volete, ma non il capitalismo

Monarchia illuminata, monarchia dispotica, monarchia incestuosa, monarchia guidata da tonti, monarchia guidata da uno che ama la droga più della realtà, sembra monarchia ma non è, feudalesimo, regno del terrore guidato da uno zombie con i superpoteri, regno del terrore guidato da una monarca con i draghi, oligarchia, plutarchia, teocrazia, anarchia... non c’è una singola forma di governo che i Sette Regni non abbiano provato ad adottare, con risultati quasi sempre rivedibili. Eppure nulla, né i draghi, né gli zombie, né le regine sanguinarie, né i re corrotti, nulla fa paura alla gente di Westeros quanto la banca di Braavos, un’entità astratta e disincarnata e per questo ancora più crudele e spaventosa, la cui sola menzione fa venire i brividi anche ad assassini, serial killer e omicidi seriali. Stiamo d’altra parte parlando di gente che è ancora abituata ad andare al mercato a scambiare due capre con un sedano (non un grande scambio, a occhio), e che crede all’esistenza del denaro solo se può vederlo e toccarlo con mano – non è difficile capire il loro terrore di fronte a concetti come “prestiti”, “assegni”, “tasso zero” e “volatilizzazione dei capitali”. Quello che ancora il fandom aspetta, in realtà, è uno spin-off dedicato ai banchieri di Braavos, che da quel poco che sappiamo grazie alla serie TV vedono il resto del mondo come un incrocio tra un raduno di cosplayer e uno di quegli eventi che faceva un tempo la Lega Nord alle foci del Po, con le ampolle e i riti magici di fertilità.

Bran è il corvo a tre occhi

Lo sapevate? È un dettaglio che è sfuggito a molti e che viene buttato lì, forse un paio di volte al massimo nel corso delle ultime due stagioni. Se doveste fare un rewatch della serie fateci caso, non è facilissimo accorgersene ma un paio di accenni ci sono.

“Questo governo non lavora con il favore delle tenebre”

È possibile che la citazione esatta non fosse esattamente questa, ma pensateci: il più grande esercito mai sceso su Westeros, guidato da esseri soprannaturali potentissimi immortali e, dettaglio da non trascurare, strapieni di swag, e in particolare da un tizio che si fa chiamare “Re della Notte”, decide di sferrare l’assalto decisivo alle terre che vuole conquistare avvalendosi del succitato “favore delle tenebre”, un’espressione che in Italia abbiamo imparato a conoscere in questi mesi di clausura durante i quali le conferenze stampa del sabato sera hanno rappresentato il massimo della socialità e dell’esperienza collettiva condivisa, e che in termini pratici (e di messa in scena) indica l’utilizzo esclusivo di luce naturale in un momento della giornata nel quale la luce naturale non c’è. Tale assalto va talmente male che la stessa entità che ha concepito questa strategia decide di rinunciarci in tempo zero cominciando a illuminare la zona a giorno grazie al suo drago zombie di ghiaccio, ma è troppo tardi: trasparenza, visibilità e soprattutto tracciabilità sono i veri valori su cui si fonda il successo di un regno del terrore, e affidare alla notte le proprie speranze di vittoria è una scorciatoia verso la sconfitta, non foss’altro che per il fatto che di notte non si vede una mazza.

“Era meglio il libro”

Un grande classico di ogni adattamento cinematografico o televisivo con l’esclusione, per qualche motivo, della filmografia di Stanley Kubrick, che in Game of Thrones ha toccato vette mai raggiunte prima: i libri da cui sono tratte le ultime stagioni della serie ancora non esistono eppure il fandom sa già che saranno meglio di quello che hanno fatto Benioff & Weiss, una consapevolezza che mette George R.R. Martin nella scomoda posizione di doverlo confermare con i fatti, o al contrario se preferite nella comodissima posizione di non dover mai scrivere i libri che mancano a concludere la sua saga perché tanto si sa già che sono meglio della serie TV. È importante non essere frettolosi e non trinciare giudizi sull’onda dell’emotività, ma a giudicare da come sono andate le cose nell’ultimo anno ci azzardiamo ad affermare che Martin abbia scelto la seconda lettura.

game of thrones

Il riscaldamento globale si risolve con le lame

Chiedete ad Arya Stark, che da sola e grazie al sapiente utilizzo di una combo imparata nei vicoli di Braavos pone fine alla più grossa minaccia esistenziale che i Sette Regni abbiano mai affrontato, e che una buona fetta della critica terrestre ha indicato per anni come evidente metafora di una catastrofe naturale che coinvolgerà tutta l’umanità e che si può sconfiggere solo mettendo da parte le nostre differenze e agendo come una società unita, aperta, solidale e basata sulla fiducia reciproca. Tutte cavolate: basta un colpo di polso, una lama in pancia e via, la temperatura si abbassa a livelli pre-industriali e la Terra può ritornare un paradiso, e la gente può ritornare a discutere di questioni realmente importanti tipo “chi eleggiamo come re?”. In un certo senso, peraltro, tutto questo rende Arya Stark la Greta Thunberg di Westeros.

Bran è il corvo a tre occhi

Questa non la sapevate, vero?

Game of Thrones ci manca moltissimo

Al netto delle critiche, dei problemi oggettivi, di quelli soggettivi, delle scelte demenziali, di quelle necessarie e corrette, degli episodi notturni, degli episodi diurni, delle città rase al suolo delle quali non ci frega granché, delle città rase al suolo delle quali ci frega tantissimo, di quanto è tonto Jon Snow, di chi vincerebbe in un duello tra la Montagna e il Mastino, al netto dei meme e delle petizioni e dei premi e dei red carpet e dello stardom, al netto di tutto quanto Game of Thrones è stata prima di tutto un’esperienza di visione collettiva, qualcosa che a un certo punto è diventato più interessante commentare che vedere, un rituale che difficilmente si ripeterà ora che andiamo sempre più velocemente verso l’iper-frammentazione dell’offerta televisiva – un fossile vivente, in pratica, un dinosauro, l’ultimo rappresentante di un’epoca ormai passata e il cui tramonto ha coinciso in qualche modo con il sipario sulla serie. E i dinosauri sono, come dice anche la scienza, una delle cose più fighe di sempre: ecco perché ci mancherà Game of Thrones, e chi dice il contrario mente sapendo di Dracarys.

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