Cosa abbiamo scoperto dalla masterclass di Sergio Leone al Centro Sperimentale

L'uso dei rumori, De Niro che non si voleva doppiare, Da Grande vs. Big, l'interpretazione del finale di C'Era Una Volta In America e lo scontro con un giovane Francesco Bruni

Critico e giornalista cinematografico


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A metà anni ‘80 Sergio Leone è ospite di una masterclass nel Centro Sperimentale di Cinematografia, la scuola nazionale italiana di cinema. E inizia dicendo che lui non ha frequentato nessuna scuola di cinema.
Quella che seguirà è una cavalcata di un’ora e 40 minuti in cui il regista, che ha da qualche anno terminato e distribuito in sala C’era una volta in America, accetta domande a ruota libera dagli studenti di tutti i corsi riuniti davanti a lui. Più che altro si discute proprio del suo ultimo film ma qualcuno azzarda anche qualche domanda più ampia e ariosa.

Alcuni degli allievi che si vedono in platea sono poi diventati famosi come ad esempio Enrico Lo Verso. Molti sono fan, tutti sono comprensibilmente in soggezione davanti a Sergio Leone (un allievo addirittura premette di aver già visto il film 6 volte) e le domande sono molto quiete e adoranti. Tutti tranne uno: Francesco Bruni, futuro sceneggiatore tra i più importanti, premiati, rilevanti e influenti del cinema italiano, l’unico a fargli domande per nulla quiete o adoranti.

Il video dell’incontro è stato messo online di recente dal Centro Sperimentale sul suo canale YouTube come parte di una serie di incontri illustri avvenuti negli anni. È una visione particolarmente interessante perché dà la possibilità a Leone di parlare con maggiore ampiezza e libertà rispetto a qualsiasi intervista e mostra molto bene la maniera di pensare e di vedere il cinema (anche italiano) che aveva e lo animava. Il video è insomma pieno di chicche e curiosità.

Vi proponiamo tutto quello che noi abbiamo imparato di nuovo vedendolo.

Non dare troppo retta alla teoria

Se uno dà retta ad Aristarco finisce per non fare niente o fare male”. Non sono nemmeno iniziate le domande e già nell’introduzione Leone già spara il primo attacco. Aristarco è stato uno dei critici cinematografici più noti del Novecento, il simbolo della critica dura e intellettuale.

Per Leone il cinema è la sua pratica, ci tiene a specificarlo proprio nel tempio dell’insegnamento che la teoria va bene ma solo se presa con le pinze. E visto che la maniera migliore di imparare è quindi un tirocinio, quello dovrebbero cercare come prima cosa gli studenti “ma non un tirocinio da amatore” precisa “cioè non dovete seguire un regista che vi è congeniale perché sennò diventate degli imitatori. Per uno che vuole fare questo mestiere un set di un brutto film è molto più importante, perché dà modo di intercettare e vedere subito quel che non si deve fare, mentre quando sei affascinato dal maestro ne subisci il fascino e diventi un imitatore, che è la cosa peggiore”.

C’era una volta un certo tipo di cinema

Il film l’avrete capito ha un sottotitolo: C’era una volta un certo tipo di cinema”, parlando di C’Era Una Volta in America Leone spiega che ha scelto per l’infanzia di Noodles tonalità seppia per imitare il dagherrotipo “che era il bianco e nero di una volta” e che per farlo al meglio ha usato una pellicola brevettata dalla Technicolor italiana dotata di una quantità maggiore di argento rispetto al solito così che i neri siano più contrastati e i bianchi più netti.

Il disaccordo sul finale

Sempre su C’Era Una Volta in America il regista racconta che in sede di sceneggiatura non tutti erano d’accordo sul finale, ovvero il ritorno alla fumeria d’oppio e il fermo immagine sul volto di De Niro: “Gli sceneggiatori volevano farlo finire con un flashback di Noodles che sogna di nuovo per un attimo la sua giovinezza”. Invece per Leone l’interpretazione corretta del film è che Noodles non si è mai mosso da quel 1930 e attraverso l’oppio ha sognato il suo futuro: “Perché l’oppio è l’unica droga che dà delle visioni nuove, ti fa immaginare cose che non conosci e non sai”.

Il miglior sceneggiatore di Sergio Leone

Come noto Leone lasciava che Morricone componesse le musiche dei suoi film prima dei film stessi, sulla sceneggiatura. Gliele faceva poi registrare con un’orchestra ridotta così da poter andare sul set e lavorare con gli attori dandogli già la guida musicale. Nello spiegare questo agli studenti il regista si lascia andare a dettagli su cosa accada quando giri con la musica: “La troupe sta zitta finalmente e tutti cercano di non fare rumore” oltre ad aggiungere che può permettersi questo metodo di lavoro perché “nei miei film il dialogo è relativamente presente, quindi la musica è determinante. Ennio è il mio miglior sceneggiatore”.

L'Arancia Meccanica

Nel parlare della maniera in cui dipinge i suoi eroi e cattivi Leone spiega come tutto sia cambiato con Arancia Meccanica di Kubrick (che lui chiama “L’arancia meccanica”): “Prima gli eroi erano positivi e basta, non erano a tutto tondo, erano molto più moralisti. Ma da l’Arancia Meccanica in poi sono nati modi di pensare e vedere il cinema diversi, compreso quello di Peckinpah. Sono storie più autentiche, più vibranti. Io non credo che il cinema debba rappresentare dei fantocci”.

Un cinema machista

Fino a questo punto l’incontro è andato liscio, quando però prende la parola Francesco Bruni, allora studente di sceneggiatura, arriva la prima domanda non allineata. Bruni gli chiede se per caso i suoi personaggi femminili, spesso umiliati, non abbiano ricevuto attacchi dalle femministe. A questo Leone risponde che in realtà in C’Era Una Volta in America è proprio la protagonista ad umiliare gli altri, che in generale esistono donne come quelle che lui rappresenta “Le conosciamo e le abbiamo viste tutti, ad esempio le ninfomani, che è un caso tipico e abbondante nel mondo americano. Ma anche in quel caso il tempo gioca a favore del personaggio perché poi diventa la più saggia di tutti, riconoscendo di aver sprecato la sua vita”.
Bruni non è soddisfatto però e con calma e garbo replica di aver percepito un po’ di machismo e maschilismo nei suoi film “perché c’è simpatia sempre per gli uomini”. Alchè Leone replica “Ma come? Per la prima volta in un film d’ambientazione gangster le donne vivono di una volontà propria anche se negativa!”.

Il neorealismo non era cinema, era cronaca

Ma non finisce qui, Francesco Bruni con la ferma gentilezza che lo caratterizza ha un’altra domanda, questa volta sulle epopee che Leone racconta sempre nei suoi film e sul fatto che ne potrebbe trovare anche in Italia “ad esempio quella dei garibaldini” - “Ma quelli li conosciamo solo noi” - “Beh li possiamo far conoscere agli altri”. E qui Leone parte con una dissertazione molto interessante sul fatto che la lotta contro il cinema americano per imporre le proprie storie lui la considera persa da 60 anni almeno, perché sono stati in grado di invadere tutti i paesi del mondo rendendo il loro cinema familiare, come anche i loro fumetti o i loro scrittori.
In realtà c’è stato un periodo in cui abbiamo imposto le nostre storie” lo interrompe Bruni, beccandosi un Leone ancora più incalzante e radicale in risposta: “Ma il neorealismo era cronaca non cinema, cronaca di quel momento, cronaca indispensabile, una pietra ferma per carità, ma io che ho cominciato con film neorealisti (facevo l’assistente su Ladri di Biciclette) ho sempre pensato di fare film di fantasia perché non consideravo il neorealismo una realtà cinematografica ma solo un momento storico, una documentazione autentica che tutto il mondo conosceva perché siamo stati invasi dall’America, adesso sarebbe inutile fare un film su quel periodo” - “Ma infatti bisogna fare il realismo di oggi”, è la metà degli anni ‘80 e Bruni ha già chiarissimo quel che vuole fare e che di fatto farà: “Ma comunque non sarà mai come quello di ieri” è la risposta di Leone “Li facciamo già i film neorealisti oggi e sono brutti film, perché la realtà è squallida oggi”. Qualche domanda dopo il regista arriverà a contraddirsi affermando, riguardo l’America, che invece la realtà è piena di storie: “Se vai a New York, piazzi una macchina da presa, te ne vai, torni dopo 5 ore e poi dopo sviluppi la pellicola, quel che hai è già un film, visto quante cose diverse accadono in quella città”.

Da Grande e Big

A seguito della discussione con Francesco Bruni, Sergio Leone allarga il suo pensiero e per spiegare come molto spesso si faccia cinema male in Italia fa l’esempio del film con Renato Pozzetto: “Ho giudicato demenziale Da Grande, mi sembrava fatto da un bambino di 10 anni. Poi ho visto un altro film, identico, fatto da una donna, un’esordiente di 50 anni con del mestiere alle spalle, perché attrice di soap, che si chiama Big [Leone qui sbaglia, sia perché Penny Marshall non era un'attrice di soap ma semplicemente televisiva, aveva recitato tra le mille serie anche in Mork & Mindy e Happy Days, sia perché aveva già diretto episodi di serie tv e un thriller pseudo informatico molto leggero intitolato Jumpin' Jack Flash con Whoopi Goldberg ndr] e lì si vede come dallo stesso soggetto possano venire fuori due film diversi da paragonare: come si fa il cinema quello vero e come non si deve fare il cinema”.

De Niro non voleva doppiarsi

Parlando del suo scarso uso della presa diretta e della sua tendenza invece a registrare il suono in post-produzione, chiedendo quindi agli attori di doppiarsi, Leone racconta di come De Niro fosse restio alla pratica e avesse chiesto di registrare le sue scene in presa diretta. Leone lo accontenta ma, racconta, quando poi l’attore ha visto che gli altri recitavano con la colonna sonora di sottofondo ha accettato anche lui di doppiarsi: “Era la prima volta che lo faceva ed è andata benissimo, nessuno si è accorto che il 60% del film non è in presa diretta e il 40% sì”.

La miglior musica di Morricone

L’inizio di C’Era Una Volta Il West l’ho musicato ma la musica sta in un cassetto [il film finito non ha musica nella sequenza iniziale ndr] perché quando ho messo i rumori come li faccio io, che li curo in modo particolare perché per me sono musica, ho capito che in quel momento alla stazione erano più musicali della musica stessa. E quando poi Ennio, che la musica per quella scena l’aveva composta, ha visto il film finito e ha visto che avevo levato la sua musica in quel punto mi ha detto che nei primi due rulli c’è la miglior musica che lui abbia mai composto”.

Gli attori italiani

Alcuni studenti di recitazione chiedono a Leone come possano gli attori italiani farsi notare dal cinema americano e Leone gli spiega che secondo lui è impossibile, che chiunque vada in America senza essere americano potrà solo interpretare lo straniero: “Se parli perfettamente la loro lingua, se fai un tirocinio da loro per imparare come lavorano, alla fine comunque ti fanno fare la straniera. La francese, la spagnola, l’italiana o la latina in generale. Non c’è un esempio di un’attrice straniera, anche francese o tedesca che sia passata per americana, tranne la Bergman che arriva giovanissima a Hollywood e infatti poi fa Per Chi Suona la Campana dove è barattata per una spagnola, che voglio dì, ce vo’ coraggio a barattare la Bergman per spagnola”.
Più in generale Leone non ha stima degli attori italiani, trova la nostra scuola cattiva e dice di trovarsi meglio con attori che vengono dalla vita (cioè non professionisti): “Sono nato in pieno neorealismo del resto”. Secondo lui i professionisti italiani sono viziati da cattive scuole, mentre in America c’è un professionismo incredibile: “Ho fatto 2.500 provini anche a chi non aveva mai fatto cinema, chi faceva filodrammatiche o teatro nei college, università e notato che c’è un insegnamento molto più serio”. Ma ancora peggio Leone spiega che spesso anche quando preso dalla vita l’italiano è comunque un cattivo attore perché non interpreta se stesso “ma pensa a Spencer Tracy e lo vuole imitare, ovviamente non avendone le possibilità viene una cosa terribile”.

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