Cosa abbiamo capito della Disney dopo avere visto Frozen 2: dietro le quinte

Frozen 2: Il segreto di Arendelle è finalmente arrivato su Disney+ anticipato da un documentario. Ecco cosa hanno svelato i dietro le quinte

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Frozen 2: Il segreto di Arendelle è finalmente arrivato su Disney+ anticipato dalla serie di documentari dedicati al dietro le quinte della lavorazione.

Un viaggio di più di tre ore negli anni che hanno preceduto l'uscita del del film campione di incassi. La narrazione impostata dall'opera ha certamente esaltato i molti valori "corporate" ma ha anche rivelato molto delle strategie produttive e del metodo lavorativo Disney.

Ecco cosa abbiamo capito della Disney guardando Frozen 2: dietro le quinte.

Frozen II

I difetti fanno parte del mito

La strategia commerciale di Disney all’interno della piattaforma di streaming di cui è proprietaria, è fortemente incentrata nel consolidare l’immagine dell’azienda attraverso i suoi prodotti. Nessun servizio on demand di questo tipo cura fino a questo livello i prodotti all’interno del catalogo. I film sono collocati all’interno di cicli o sezioni tematiche e per la gran parte offrono contenuti speciali che aumentano il tempo di fruizione. Le storie non sono trattate come intrattenimento usa e getta, ma come tassello importante per alimentare il mito attorno alla firma di Walt Disney. Una strategia nel bene e nel male coerente con l'impostazione aziendale.

In questo senso la docuserie dedicata a Frozen II è il perfetto sostituto delle edizioni delux da collezione dei dvd. Eppure, per intenderci, questo dietro le quinte ricorda molto più quello de Lo Hobbit (nel dramma) che del Signore degli anelli (nell'entusiasmo), non risparmiando fallimenti, litigi e facendo intuire molte delle difficoltà affrontate. Un dietro le quinte tutt'altro che sereno. La produzione ha seguito per un anno la lavorazione del film; una corsa contro il tempo prima della premiere, con successi creativi ma anche frustrazioni e cambi in corsa. Per qualcun altro un racconto così schietto sarebbe un problema. Nella filosofia di Disney. Le difficoltà (seppur molto “controllate”) vanno a solidificare il mito.

Una corsa contro il tempo

Era il lontano 2013, Frozen si aggiudicava il premio Oscar come miglior film d’animazione. Let it go conquistava le classifiche musicali e gli store si riempivano delle figure di Elsa, Anna e Kristoff.
6 anni dopo, nel 2019,  Frozen 2: il segreto di Arendelle diventava il film d’animazione con il maggiore incasso di sempre. 6 anni per creare un successo planetario. Un tempo che, normalmente, avrebbe permesso una lavorazione distesa. Eppure, come visto dal documentario, i tempi furono decisamente stretti rispetto alle ambizioni. Protagonista assoluta del racconto è la direttrice creativa Jennifer Lee, presa a modello di donna in carriera, oltre che di artista. Seguendola nella quotidianità la serie ci mostra molti aspetti della lavorazione.

Non è la prima volta che la Disney mostra la sua compartimentazione. Tanti reparti che si occupano di piccole cose. Una breve sequenza può richiedere mesi solo per essere animata dallo storyboard. I giornalieri vengono mostrati a Jennifer Lee e al regista Chris Buck a scadenza regolare, per tenere conto dei progressi. Una volta trovata la forma definitiva si passa il materiale ai vari reparti degli effetti visivi che danno forma alle luci e allo spettacolo di colori. In pochi hanno il polso dell’intera storia. La lavorazione richiama quella di un ingranaggio. Se si dovesse “inceppare” un reparto, tutta l’intera produzione potrebbe risentirne. 

Test Screening

Attorno alle proiezioni di prova del film vi è sempre stata una buona dose di mistero. Frozen 2: dietro le quinte mostra, come poche altre testimonianze hanno fatto, che cosa avviene in queste proiezioni. 

Non appena la storia è tutta messa a schermo, sebbene per gran parte nella forma di storyboard, vengono convocati gli artisti e i registi sotto contratto con la Disney. Un vero e proprio team di creativi che si riunisce, vede il film, e dà il proprio parere.

La franchezza è la parola d’ordine.

Un momento non semplice quindi per i registi che possono vedere la loro opera letteralmente fatta a pezzi e poi ricomposta. Da quel momento in poi si tiene ciò che funziona e si ritorna al lavoro “da zero” seguendo i consigli emersi durante il brainstorming. Sono numerosi i test screening fatti in questa fase e ben diversi dalla proiezione con il pubblico effettuata a circa 6 mesi dalla premiere. Gli spettatori sono selezionati in cluster demografici (età, interessi…). Nel caso di Frozen 2 l’età del pubblico era generalmente molto bassa, i bambini avevano una media di 5-6 anni. La cosa ha dato non pochi grattacapi a Jennifer Lee che, per sua ammissione, ha pensato il film per un pubblico più grande. Una bella gatta da pelare quando, dai dati emersi dalla proiezione, il problema principale del film è la chiarezza narrativa.

Un problema di pubblico o un vero difetto della sceneggiatura? Dal momento che il giudizio del pubblico coincideva con quello degli esperti,  si è ritornati sul testo per semplificarlo, snellirlo e chiarire alcuni punti oscuri.

Frozen II

Musica e film vengono sviluppati insieme

Uno dei passaggi più problematici del film è stato il climax finale con il brano “mostrati”. Troppa trama da sciogliere, troppo poco tempo per farlo; un tema musicale non all’altezza e immagini non sufficientemente graffianti. La sequenza è stata oggetto di numerosi incontri e di una lavorazione serrata fino alla fine con i compositori Robert Lopez e Kristen Anderson-Lopez. Musica e immagini sono sviluppate contemporaneamente e si influenzano e si cambiano a vicenda. In particolare, in questo caso, il tema di Into The Unknow è entrato quasi a caso nel brano, permettendo allo stesso tempo alla regista di risolvere un annoso problema di trama. 

I doppiatori non doppiano (solo) il film finito

Conciliare gli impegni della produzione con quelli dei talent coinvolti non è mai un’impresa semplice, nemmeno quando si tratta di doppiaggi. L’impressionante team di voci di Frozen II è stato coinvolto nelle prime fasi di lavorazione. Come detto da Kristen Bell: a volte venivano chiamati per sessioni di otto ore, altre volte per solo due ore di lavoro, o semplicemente per aggiustare qualche battuta.

In questa fase i doppiatori prestano le voci a quelli che di fatto sono semplici storyboard. Da lì gli animatori potranno cambiare le espressioni e la posizione delle labbra seguendo la loro parlata. Diversamente dal doppiaggio comunemente conosciuto, non viene effettuato dopo sovrapponendo le voci alle immagini, ma la performance vocale dei talent influenza le stesse. Uno dei momenti più emozionanti del documentario è proprio il momento in cui, durante una sessione di doppiaggio, viene mostrato al cast vocale il teaser del film. La loro reazione è di stupore di fronte alle immagini con il rendering finito. Sequenze che hanno sempre visto mentre erano in produzione, ma mai in forma definitiva. 

Frozen II

Il crunch non esiste solo nel mondo dei videogiochi…

Nel mondo videoludico è ben nota la condizione del “crunch time”. Durante la lavorazione dei titoli più importanti può capitare che la direzione si renda conto di non potere rispettare i tempi di consegna lavorando al ritmo di una normale giornata in ufficio. Capita quindi che gli sviluppatori vengano incoraggiati a lavorare per molte ore di “straordinario” arrivando a toccare le 100 ore settimanali. Per qualcuno è una passione irrefrenabile, per altri è sfruttamento. Questa condizione è meno nota nel mondo del cinema ma, attraverso le testimonianze del documentario (virate ovviamente in un senso positivo) apprendiamo come, sotto consegna del master, gli animatori lavorino a dei ritmi straordinari. La stessa Jennifer Lee ammette di avere passato 14, 15 ore in ufficio per potere consegnare in tempo il film. 

Viene allora da pensare alle recenti affermazioni di registi come Scott Derrickson che, durante la quarantena, si era scagliato contro le date di uscita imposte dagli studios. Il motivo è chiaro: la creatività non guarda l’orologio. Spesso lo sviluppo di un’opera prende vie imprevedibili, si modifica con il tempo. Realizzare un film di corsa può essere (ma attenzione, non sempre è così), un danno alla qualità.

Dall’altro lato della medaglia troviamo invece le esigenze degli studios di arrivare a una conclusione e portare nel mondo l’opera. Per i registi difficilmente un film sarà mai concluso ma, proprio come un figlio, cresce, si evolve, e prende nuove forme (ricordate il caso di Matteo Garrone su Gomorra?). Lo racconta bene Jennifer Lee all’interno della docuserie: durante la realizzazione di Frozen: il regno di ghiaccio non vi erano grandi aspettative, le pressioni erano al minimo e lo sviluppo poteva procedere serenamente. Lavorare sul sequel ha comportato un numero maggiore di “bisogni” a cui rispondere, non sempre legati alla pura e semplice storia.

Che cosa ne pensate? Fatecelo sapere nei commenti!

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