Corto circuito è migliorato invecchiando | BadBuster
Corto circuito era un divertente esperimento mentale nel 1986. Nel 2021 fa un effetto completamente diverso perché è spaventosamente simile alla realtà
Ho sempre catalogato Corto circuito nello stesso contenitore mentale dove tengo i film, per semplificare, “alla E.T.”, che sia I Goonies o Stand By Me o Howard e il destino del mondo; e non mi sono mai troppo preoccupato di valutarne l’aspetto fantascientifico: era un film con una protagonista giovane e un macchina senziente, e tanto bastava. Ecco perché rivederlo oggi mi ha fatto l’effetto che fa il proverbiale buon vino: Corto circuito è invecchiato magnificamente, e per certi versi è molto più interessante ora di quanto lo fosse 35 anni fa.
Innanzitutto, parliamo del protagonista: Numero 5 è un robot militare, un antenato dei droni (e non solo) che oggi vengono impiegati regolarmente in ambito bellico e che sono al centro di parecchie discussioni sull’etica della guerra da remoto, oltre che di parecchi brutti film tra cui uno uscito di recente su Netflix. Nel 1986 l’idea di utilizzare in robot in guerra era ancora un esperimento mentale, un’ipotesi alla quale si lavorava ancora in via del tutto teorica; nel 2021 è la normalità, e Numero 5 diventa dieci volte più inquietante, e la reazione di chiunque lo incontri parecchio più comprensibile. Quando ero piccolo vedevo in Johnny 5 un novello Frankenstein (o Frankfurter, come lo definisce l’imbarazzantissimo Ben/Fisher Stevens), una creatura incompresa alla quale non viene riconosciuta la propria umanità; oggi mi viene in mente il mondo reale, o anche uno dei milioni di esempi di fiction nei quali si parla di guerra via drone, dal remake di RoboCop a Homeland.
Quello bellico non è l’unico aspetto interessante di Numero 5. Colpisce ovviamente l’idea di un robot che diventa senziente per un malfunzionamento, ma nella fantascienza si discute dell’argomento da decenni. Più interessante è il modo in cui il robot assorbe gli input dei quali ha disperatamente bisogno dopo il reboot: Stephanie (Ally Sheedy) gli dà in pasto enormi quantità di dati provenienti da ogni fonte possibile (enciclopedie, romanzi, show televisivi, pubblicità), e Johnny 5 le raccoglie e le rielabora per dare un senso alla realtà. Non c’è programmazione in senso tradizionale dietro il modo in cui Numero 5 impara le cose, piuttosto ci sono algoritmi che vengono messi alla prova dai big data. Se Google potesse incarnarsi in un robot verrebbe fuori la versione 2.0 di Numero 5: una macedonia di informazioni che arrivano da più o meno ovunque senza alcun filtro, tenute insieme da un costante flusso di citazioni pop.
Ci sono poi i due protagonisti. Lei, Stephanie, è un’animalista che vive con cani, gatti, altri mammiferi e svariati volatili, delusa dagli uomini (intesi come genere) perseguitata da un ex trasformatosi nel suo stalker; è una donna forte, indipendente e decisa, con una chiara avversione verso il turbocapitalismo militarista, nonché la prima a riconoscere la scintilla di vita (metaforica) negli occhi di Numero 5. Lui, invece, Newton, è il prototipo del nerd anni Ottanta, che non ha mai avuto a che fare con una donna e che vive per la sua ricerca e i suoi robot; secondo Austin Pendleton, amico del regista John Badham (che sì, è quello della Febbre del sabato sera, che viene infatti citato nel film) e interprete di Howard Marner, presidente della NOVA che ha costruito i robot, il più grosso difetto del film è il casting di Steve Guttenberg, che ha una faccia troppo amichevole ed espressiva per incarnare la figura dello scienziato socialmente inadatto e anaffettivo. Che siate d’accordo o meno con lui, resta il fatto che la coppia protagonista di Corto circuito è un altro elemento di modernità, soprattutto per come ribalta i ruoli di potere.
Non mancano ovviamente i problemi, o se preferite i segni che il film è stato scritto negli anni Ottanta e non oggi. A parte un certo strisciante sessismo ogni volta che Newton parla di donne con l’amico Ben, il grosso problema è Ben in quanto tale: è indiano, e parla in un inglese zoppicante con un accento marcatissimo; peccato che Fisher Stephens sia un americano di Chicago, e che vederlo con la faccia dipinta mentre incarna lo stereotipo dell’immigrato indiano bravo con i numeri ma che dice sempre cose imbarazzanti è, be’, imbarazzante a sua volta (se vi interessa sapere cosa ne pensa il diretto interessato guardate qui).
Per tornare all’inizio prima di chiudere: Johnny 5 meriterebbe un libro a parte, non solo in quanto personaggio ma anche per com’è disegnato (da Syd Mead, nientemeno), realizzato (da Eric Allard) e controllato da remoto come una marionetta. Ha lo stesso carisma del protagonista di un film Pixar, e la stessa espressività trasmessa con pochi semplici dettagli (nel suo caso soprattutto le sopracciglia), e quando balla è impossibile non pensare a video come quello qui sotto. Ecco, mettetela così: se dovessi scommettere punterei qualche soldo sul fatto che il primo Numero 5 della storia dell’umanità uscirà da quei laboratori.