Coraline: a 10 anni dall'uscita italiana il film di Henry Selick rimane un unicum mai imitato

Nel 2009 Coraline piombava nelle sale italiane come un'incredibile discontinuità nel dominio dell'immaginario Pixar, con parole, storie e design epici

Critico e giornalista cinematografico


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L’inizio di Coraline e la Porta Magica dice tutto e anche visto oggi, dieci anni dopo, rimane suggestivo e promettente. Delle mani meccaniche che scuciono e ricuciono macabramente delle bambole, inquietante e vitale al tempo stesso, con una musica falsamente rassicurante, sembra una sintesi di tutti i trucchi che il cinema ha per creare mistero, dall’uso di retaggi antichi (il filo da cucito delle Parche che associamo alla vita), all’omaggio a maestri contemporanei (c’è subito un’aria da Tim Burton & Danny Elfman) a trovate moderne (la musica in contrasto). È tutto così stranamente disturbante, così vicino al massacro e alla ricomposizione di un essere vivente, e così metacinematografico (viene realizzata una bambola in un film tutto fatto di pupazzi di plastilina) che ad una prima visione non può essere compreso a pieno. Eppure funziona.

Come scrisse all’epoca A.O. Scott sul New York Times identificando perfettamente il punto di tutto il film:

“...fino a quando non si avvicina eccessivamente alla violenza o alla paura profonda, un film che solleva un pizzico di instabilità o un brivido di paura può essere un tonico che riattiva la sensibilità anestetizzata dall’intrattenimento sedativo e salutare approvato dalla scuola”

Coraline e la Porta Magica nel 2009 arrivava a spezzare in due l’immaginario animato nel periodo di maggiore successo della Pixar, quando aveva scavallato i propri classici ed era uno studio ampiamente celebrato, riconosciuto come il più importante dai tempi di Disney (anche se ormai già di proprietà della Disney). Il film di Henry Selick era un collage di immaginari diversi capaci di parlarsi benissimo e dar vita a qualcosa di unico e di grande, a basso budget e altissima immaginazione.

La storia viene dal racconto di Neil Gaiman, artista del doppio, della specularità e dello slittamento da un mondo all’altro, il character design era di Tadahiro Uesugi (illustratore giapponese da poco scoperto da Selick) e il feeling e il passo erano tutti di Selick, genio sfortunato e non sempre compreso che all’epoca aveva “solo” Nightmare Before Christmas come credenziale di successo e un altro paio di film non di uguale fama e apprezzamento sulle spalle. Coraline era il suo ritorno, in 3D nel momento in cui il 3D furoreggiava, con moltissime idee di profondità che lo rendevano in quel momento il più bel film 3D mai fatto (Avatar sarebbe uscito quell’anno qualche mese dopo).

La perfezione eterna della sua storia né moderna né antica, in un mondo né moderno né antico, gotico a tratti e circense ad altri è immortale. Furono costruiti 150 set in un’area di 13.000mq per animare tutto nel minor tempo possibile arrivando ad impiegare fino a 30 animatori contemporaneamente. I personaggi e i loro accessori erano realizzati con stampanti 3D e questo film non voleva nemmeno avere l’indemoniata furia degli altri cartoni animati. Mentre Dreamworks, Pixar, Disney e Blue Sky lottavano fino all’ultimo server per realizzare cartoni d’azione, rapidissimi, pieni di scene concitate eppure comprensibili, Coraline era una favola nera davvero per tutte le età con un passo controllatissimo e un’inquietudine uniche.

Si veda questa scena, in teoria di grande tensione, nella pratica dominata da un dialoghi e ampie attese, in cui la protagonista troneggia per carattere più che per azione.

https://www.youtube.com/watch?v=oBO9Uy4uc_c

Solo otto anni dopo l’uscita di La Città Incantata, Coraline era una bambina che viaggiava dentro le proprie paure entrando in una porticina che sembrava quella del suo inconscio. In questo modo invece di finire nel paese delle meraviglie finisce in un mondo parallelo che come in Tim Burton è al tempo stesso mortifero e colorato, ma al contrario di Burton è attraente grazie ad una luce falsa, che attira per bruciare. C’è un doppio del padre, un doppio del suo amico (aggiunto rispetto al racconto originale perché altrimenti “il film sarebbe durato 47 minuti”) e soprattutto un doppio della madre. Con incredibile uso delle parole che solo uno scrittore vero può padroneggiare, tutta l’inquietudine della storia è condensata in un aggettivo: “altra”. L’altra madre sembra l’opposto della vera madre, è sorridente, disponibile e piena di doni ma ha gli occhi a forma di bottone ed è bramosa, sotto sotto è una specie ragno meccanico che desidera smembrare Coraline per ricomporre se stessa. Dentro l’inconscio della protagonista ci sono le proiezioni dei suoi desideri e delle sue paure al tempo stesso. Brutale e favolistico.

Coraline vivrà un’avventura che ricalca perfettamente i videogiochi degli anni ‘90 (c’è un ambiente da esplorare in tutte le sue aree, e ci sono diversi schemi, più ci si avvicina alla fine più è necessario “finirli” scontrandosi con i rispettivi boss, sconfitti i quali si passa allo schema successivo). E solo 10 anni dopo già ci sembrano videogiochi di un’altra era e un modo di attingere al mondo videoludico tenero e infantile. All’epoca dell’uscita del film era una sua componente sorprendente, oggi invece è il character design a rimanere più impresso. Lo stile del semi-realismo-pupazzoso Pixar ha conquistato l’immaginario, tutte le altre case disegnano e pensano i personaggi con quel carattere morbido e poco inventivo, disegnano la luce con quei toni tenui e falsamente naturalisti. Selick e Uesugi invece avevano creato un mondo unico di forme mai viste prime, falsissimo ma attraente.

Inimitabile e del resto inimitato dalla stessa società che l’ha prodotto, la Laika (fu il loro primo film, seguito da altri cartoni in stop motion vero o digitale mai al medesimo livello), Coraline porta addosso i segni del suo tempo dal 3D, ai videogiochi vecchio stampo fino alla doppiatrice protagonista (Dakota Fanning nei suoi anni di splendore e fama), alle influenze di Burton e la sua versione per nuove generazioni che era lì lì per esplodere: Guillermo Del Toro. Eppure in tutto questo è fortemente se stesso, così tanto che non abbiamo più visto niente di simile nonostante continuiamo ad attenderlo.

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