Copshop: l’exploitation è viva e lotta insieme a noi

Copshop è un film anni Novanta con solo una sottile patina di modernità applicata con moderazione: che gioia!

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Copshop è su Netflix

Che gioia sapere che ogni tanto escono ancora film come Copshop! Magari l’avete già visto e state pensando “ma come, è un filmetto mediocre e dimenticabile”, o anche “e pensare che un tempo Joe Carnahan sembrava lanciato verso una grande carriera, e invece ora si è ridotto a fare roba televisiva di scarsa qualità”. Ma sapete una cosa? Ogni tanto il cinema ha bisogno anche di film come questo, con poche pretese se non quella di intrattenere per meno di due ore andando a pescare dal genere più puro e mettendo in scena situazioni già viste con linguaggi consunti e abusati, ma anche con una gran voglia di fare casino che da sola basta per perdonare tutto quanto. Un tempo (diciamo negli anni Novanta) film come Copshop uscivano con la frequenza di un temporale a maggio 2024 – e direste mai che negli anni Novanta si stava male?

Copshop e il genere

Copshop si apre con un campo lungo su un paesaggio desertico, e subito pensi “western!”. Poi in scena entra una pistola, maneggiata con destrezza da un personaggio ancora senza volto; ancora una volta pensi “western!”. Poi l’inquadratura si sposta, si scopre che non siamo nel 1800 ma nel presente, che la persona che sta usando la pistola è una poliziotta nera e che non siamo proprio nel mezzo del deserto, ma a due passi da un baracchino che vende hamburger. A quel punto pensi “Breaking Bad!”, e sorridi. Basta poco a conquistare chi si nutre di film di genere, e Carnahan dimostra di saperlo, e di avere ancora una grande capacità di farci drizzare le antenne con pochi dettagli.

Dopodiché, il film cambia ancora direzione, e a quel punto il riferimento più facile è sempre il solito: Quentin Tarantino, ovviamente, e il suo mix di ultraviolenza e dialoghi cervellotici, messi in scena in spazi chiusi e anche claustrofobici. Certo, Carnahan in questo caso non ha le stesse ambizioni autoriali del ben più talentuoso collega, ma vi sfidiamo a guardare Copshop e a non pensare neanche una volta all’aggettivo “tarantiniano”. È un film di criminali che vogliono ammazzare altri criminali, è un film di interpretazioni sopra le righe, è un film pieno di poliziotti corrotti, poliziotti incapaci, poliziotti buffi e stereotipati, ma anche psicopatici da manuale e personaggi larger than life. Non vuole essere elevato, ma d’altra parte neanche i film di Tarantino guardano al cinema “alto”, ma lo diventano nel momento in cui vengono messi in scena da un autore con un’impronta così riconoscibile. Carnahan non ce l’ha, e con tutta l’umiltà del mondo sceglie quindi di puntare su quello che sa fare meglio.

Sangue botte violenza alè alè

“Quello che sa fare meglio” è poi la violenza in tutte le sue forme: a tratti stilizzata, a volte estetizzata all’inverosimile, ogni tanto macchiata di umorismo, ma comunque violenza. È la storia di un tizio che di mestiere fa il fixer (parola forse intraducibile, ma se avete idee le ascoltiamo volentieri) e che ha fatto qualcosa di sbagliato, provocando le ire di gente ancora più cattiva di lui e che lo vuole quindi morto. È la storia del killer che è stato mandato per ucciderlo, e che pur di avvicinarsi a lui accetta di farsi arrestare. Ed è la storia della stazione di polizia che si ritrova tra le mani una patata troppo bollente per le proprie capacità – con l’eccezione della protagonista interpretata da Alexis Louder, che per certi versi è il personaggio migliore e più interessante del film.

È, insomma, un classico, o meglio una serie di due o tre classici mischiati insieme; si potrebbe giocare al drinking game dei riferimenti e delle citazioni, ma mentre scriviamo è ancora pomeriggio ed è un po’ presto per dedicarsi all’alcolismo. E comunque quello che conta non è scoprire da quale film di preciso Carnahan abbia pescato: quello che conta è che lo fa bene, con l’amore per la materia che serve quando si affronta un progetto potenzialmente “da mutuo” e si decide di dargli un minimo di personalità.

Copshop e il barbiere di Frank Grillo

C’è da dire che, rispetto ai film che lanciarono Carnahan (Smokin’ Aces su tutti), Copshop tira un po’ il freno a mano sullo stile: regia e messa in scena sono spesso “televisive” nella peggiore accezione del termine, e la responsabilità di elevare il progetto ricade tutta sulle spalle degli attori. Per fortuna qui il film azzecca quasi tutto, non solo Louder – che peraltro vorremmo vedere alle prese con progetti più impegnativi. Azzecca prima di tutto Gerard Butler, in un ruolo da psicopatico (anche se il suo personaggio obietterebbe su questa definizione) che gli dà la possibilità di sfogarsi come non sempre gli capita in progetti del genere dove solitamente viene scelto per fare l’eroe, tutto d’un pezzo o meno.

E poi azzecca la scelta di Frank Grillo e la sua acconciatura: da sempre considerato una seconda linea a Hollywood, negli ultimi anni si sta ritagliando un posticino sempre più grosso nel cuore di chi ama i film come Copshop, e vederlo agitare un’improbabile zazzera da hippy mentre cerca di salvarsi le chiappe è semplicemente adorabile. Menzione speciale, poi, per Toby Huss, un altro character actor (categoria ormai in via d’estinzione) che qui si diverte come se Carnahan gli avesse detto “fai quello che vuoi, tanto mi piacerà”; lui lo fa, e porta al film una bella ventata di locura che serve a rinfrescare una trama che ci mette molto poco a infilarsi su binari prevedibili. Non che sia un male: i film di genere funzionano anche per questo, perché hanno regole, codici e strutture facilmente riconoscibili e proprio per questo efficaci. Copshop, insomma, non aggiunge letteralmente nulla alla storia del cinema, ma in cambio fornisce un paio d’ore di divertimento in una location che sembra fatta apposta per vedere teste che saltano, sparatorie ed esplosioni. A volte basta poco per farci felici.

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