Cop Land è importantissimo e dimenticato
Cop Land è un momento fondamentale nella carriera di Sylvester Stallone, che per la prima volta si confronta con un corpo diverso dal solito
Questo speciale su Cop Land fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla vita l’ho imparato da Sylvester Stallone
Cop Land non è un film di Sylvester Stallone. Non è ovviamente un Rocky o un Rambo, ma non è neanche un Dredd o un Demolition Man. Sly non è il centro di tutto ma solo una delle tante voci di un coro che comprende (prendete un bel respiro) Harvey Keitel, Robert De Niro, Ray Liotta, Robert Patrick, Annabella Sciorra, Noah Emmerich, Peter Berg… Eppure, sarà questione di scrittura o di talento, è proprio il suo sceriffo Heflin a rubare la scena, e in un modo che è, di nuovo, contrario a quello a cui Sly ci aveva abituato fin lì.
La risposta è “da nessuna parte, o quasi”. Heflin è la pecora bianca del cast di Cop Land, che racconta una vicenda ai confini della distopia: nell’immaginaria città di Garrison, dall’altro lato del Jersey rispetto a New York, i poliziotti della Grande Mela hanno costruito una sorta di rifugio sicuro nel quale possono fare qualsiasi cosa sapendo di godere di totale immunità e impunità. Heflin di Garrison è lo sceriffo: un utile idiota, che i vari Keitel e Patrick usano per coprire le loro malefatte (che all’inizio sembrano solo piccoli abusi di potere ma che si riveleranno essere qualcosa di ben più grave) e che vive sotto una costante valanga di bullismo e microaggressioni.
Mai nella sua carriera Stallone aveva acconsentito a farsi umiliare in questo modo, ed è ancora più sorprendente scoprire come gli venga bene: Heflin vive sottovoce, e Sly lo interpreta con un’umiltà e una capacità di restare sempre sotto le righe (tranne quando glielo chiede Mangold) che è diretta conseguenza del suo nuovo corpo “deformato” per l’occasione. Per un attore come lui, vestire i panni di un personaggio del genere è una sfida più grande di tutte le altre che aveva accettato fin lì (e che accetterà da lì in poi): lui la raccoglie, e la vince a mani basse.
Lo aiuta, certo, il fatto di non essere sempre al centro dei riflettori: definirlo “protagonista”, in un film nel quale Keitel, Patrick e pure Michael Rapaport hanno più screentime, è forse esagerato. Cop Land è un noir corale che racconta un luogo prima ancora che le persone che ci abitano, ed è anche un film nel quale tutti i coinvolti rendono al 110%: Heflin è a tanto così dall’essere “uno dei tanti”. Ma in questa rubrica parliamo di Sylvester Stallone prima ancora che dei suoi film: e in questo senso il secondo film di James Mangold è un mezzo miracolo, un’opera nella quale viene chiesto, a uno degli attori più grossi in tutti i sensi della storia di Hollywood, di abbassare la voce e reinventarsi anche dal punto di vista fisico; di lavorare con un corpo diverso dal solito, e di rendere questa diversità parte integrante del personaggio.
Parlare di Stallone prima ancora che del film ci aiuta anche per un altro motivo: come tutti i buoni noir, Cop Land è intricato e sempre a un passo dalla confusione organizzata; è un film di colpi di scena che cancellano il colpo di scena precedente, di misteri e rivelazioni, per raccontare i quali servirebbero per lo meno le classiche decine di righe della sua pagina Wiki. È avvolgente e travolgente, girato con mano sicura da quello che allora era uno dei più grandi talenti in circolazione; un giro di giostra in un posto infernale che racconta una storia già complicata facendola esplodere e osservandola da mille punti di vista diversi. In altre parole è un filmone, anche al di là dell’importanza concettuale che ha avuto nella carriera di Stallone.
Per qualche motivo, purtroppo, nonostante un risultato decente al box office (60 milioni di incassi contro 15 di budget) e tante ottime critiche (e qualcuna meno generosa), Cop Land è stato un po’ dimenticato. Da allora, però, James Mangold ha fatto parecchia strada, ed è ora comodamente parte del mainstream più mainstream che ci sia, prima grazie a Logan e più di recente grazie al quinto Indiana Jones. Sarebbe bello che questa sua celebrità portasse anche a una rivalutazione di quello che forse non è esagerato definire il suo miglior film (o quantomeno in top 3, vista la concorrenza spietata di Quel treno per Yuma e Le Mans ’66).
E sarebbe anche interessante ragionare sul fil rouge che collega Cop Land a Indiana Jones: due film che parlano, per farla breve, di invecchiare, di doversi confrontare con un corpo che non funziona più come un tempo. Ma mentre Cop Land sfrutta quest’idea nel modo migliore, applicandola a un superuomo che, nelle parole dello stesso Mangold, nel 1997 era diventato “il cartone animato di sé stesso”, l’ultimo capitolo della saga di Indy fa la scelta opposta, ignorando il passare degli anni per regalarci un ottantenne che scala pareti di roccia a mani nude e salta da una macchina all’altra come se avesse ancora vent’anni. Ci piace immaginare un Quadrante del destino nel quale Mangold ha potuto lavorare con Harrison Ford come ha fatto con Stallone in Cop Land: forse, chi lo sa, ne sarebbe venuto fuori un film migliore, o quantomeno più intellettualmente stimolante.