Contact è un viaggio allucinante tra scienza e fede

Contact di Robert Zemeckis è uno spettacolare simposio su razionalità, fede e vita extraterrestre e altre dimensioni

Condividi
Contact va in onda su Iris questa sera alle 21:00 e in replica sabato alle 16:00

Qualche giorno fa sulle Monthly Notices of the Royal Astronomical Society è uscito lo studio di un astronomo slovacco, Miroslav Kocifaj, che rivela una nozione terribile: non esiste più nessun angolo del pianeta Terra che sia immune all’inquinamento luminoso; nemmeno i luoghi dove oggi sono costruiti gli osservatori più potenti, che sono stati scelti in base a criteri stabiliti dalla International Astronomical Union nel 1979, vanno più bene, perché la radiazione di fondo provocata dalle nostre fonti di luce ma anche da quella riflessa verso l’atmosfera da decine di migliaia di satelliti e tonnellate di detriti spaziali che orbitano intorno alla Terra è troppo alta, e disturba il segnale visivo. L’idea di non poter più scrutare in assoluto silenzio (visivo) nello spazio profondo senza venire disturbati da qualche luce di natura antropogenica è inquietante e ci fa sentire un po’ più soli... e soprattutto ripensare a Contact, il film del 1997 di Robert Zemeckis che parlava di suoni e immagini provenienti dallo spazio e della possibilità che ci sia qualcos’altro là fuori, tra le circa centomila milioni di stelle che stanno nella Via Lattea.

Contact è un’opera che meriterebbe un intero libro, una parte del quale dedicato esclusivamente alle sue vicende produttive: ve le avevamo già raccontate nel dettaglio qui, ma un rapido riassunto parte dalla considerazione che il film non sarebbe potuto esistere senza una delle figure più importanti del XX secolo non solo per l’astronomia, ma anche (c’è chi direbbe “soprattutto”) per i suoi contributi alla comunicazione e popolarizzazione della scienza, anche la più apparentemente ostica come la fisica. Parliamo di Carl Sagan, che alla fine degli anni Settanta, insieme all’allora futura moglie Ann Druyan, scrisse la sceneggiatura di un film che, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto raccontare in modo realistico e insieme coinvolgente quello che succederebbe sulla Terra se venissimo contattati da una specie aliena.

Il progetto, un ambizioso mix tra riflessioni filosofiche sul rapporto tra scienza e fede e momenti di speculazione puramente scientifica, incontrò immediatamente una serie di prevedibili problemi, primo fra tutti la spinta della produzione a modificare lo script per rendere il film più potabile. Il progetto rallentò, Sagan e Druyan ne approfittarono per trasformarlo in un romanzo, finché nel 1993 Contact venne resuscitato, e per la regia scelto George Miller (quel George Miller, al tempo reduce da, be’, L’olio di Lorenzo, non esattamente il suo film più rappresentativo), il quale a sua volta scelse Jodie Foster per il ruolo di protagonista e cominciò a spingere per includere, tra i personaggi secondari, anche il Papa.

Matthew McCoso

Non sappiamo se ci sia un collegamento tra quest’ultima informazione e il fatto che Miller venne licenziato di lì a poco (per la cronaca, il regista dice che la sua versione sarebbe stata più simile a Interstellar che al film di Zemeckis), fatto sta che Contact, al quale Sagan e Druyan continuavano a lavorare incessantemente in attesa che la produzione definisse i dettagli, finì nelle sapienti mani di Robert Zemeckis, che dopo aver viaggiato nel tempo accettò la regia di un film nel quale avrebbe dovuto viaggiare nello spazio. Come spesso accade, il suo ingresso in campo fu il dettaglio che a cascata sistemò tutti gli altri: il casting di Matthew McConaughey a fare lo yang dello yin di Jodie Foster, la finalizzazione dello script (escludendo definitivamente una serie di elementi considerati estranei, come l’idea di dare un figlio al personaggio di Foster), e finalmente l’inizio delle riprese.

Che si svolsero in alcuni dei luoghi più incredibili del mondo, tra cui uno dei più grossi complessi di radiotelescopi mai costruiti dall’uomo, talmente enorme che si è scelto di non dargli neanche un nome e battezzarlo semplicemente “Very Large Array”, cioè più o meno “complesso molto grosso”. La scelta di girare in, passateci la semplificazione, luoghi di scienza, come quella di sottoporre tutto il cast a una conferenza di Carl Sagan sulla storia dell’astronomia, sono testimonianza di quanto Contact non voglia solo essere un film che intrattiene, ma anche una collezione di spunti e provocazioni sulla scienza, la ricerca e i suoi limiti, il suo rapporto con la fede. La storia scritta da Druyan e Sagan, vagamente ispirata al cosiddetto Wow! signal, che nel 1977 si pensò per un attimo potesse essere un messaggio alieno, è tutto sommato banale: Ellie Arroway è una ricercatrice del SETI che ha passato tutta la sua vita ad ascoltare messaggi radio dallo spazio, e un giorno ne intercetta finalmente uno; gli alieni esistono, a quanto pare, e ora c’è da capire come comunicare con loro – un po’ come in Arrival, ma da remoto, visto che non vediamo mai né loro né i loro mezzi di trasporto.

Giori Foster

A fronte dell’apparente semplicità del racconto, che viene comunque arricchito di una serie di figure di contorno che complicano la ricerca della verità da parte di Ellie, Contact riesce nell’impresa di incollare allo schermo per due ore e mezza grazie a un paio di trucchetti. Il primo e più importante è quello di avere alla regia un autore che conosce alla perfezione il linguaggio del cinema d’intrattenimento più puro, e che si era già dimostrato in grado di coniugare rigore scientifico (Ritorno al futuro è ancora oggi considerato un modello di, per quanto possibile, plausibilità quando si parla di viaggi nel tempo) ed esigenze spettacolari. Per cui in Contact abbiamo lunghe discussioni sull’orientamento dei piatti dei radiotelescopi, ma recitate e montate con la frenesia di una scena catastrofica a caso di Apollo 13, ma abbiamo anche una storia d’amore tra due archetipi – la scienziata che crede solo a quello che vede e può misurare, l’uomo di fede che non si lascia sfuggire l’occasione di cedere ai piaceri della carne –, una serie di figure più o meno politiche che dopo un secolo e passa di film americani ci risultano familiari, una backstory tragica per la protagonista, e in generale tutti gli ingredienti che servono per dare calore a una storia estremamente intellettuale. E non entriamo nei dettagli delle scene più francamente spettacolari (l’attentato alla Macchina, il viaggio di Ellie), che hanno richiesto una collaborazione tra otto diverse compagnie di VFX, perché preferiamo far parlare le immagini: per esempio la straordinaria scena di apertura, che per anni è rimasta la più lunga sequenza non interrotta di pura CGI in un film e che gioca con il senso di scala e proporzioni e con la nostra natura di sassolino in mezzo a un universo vastissimo.

Il secondo trucchetto, che trucchetto non è ma testimonianza della straordinaria visione del futuro di Sagan e Druyan, è che Contact è un film quasi profetico, che presagiva una serie di sviluppi tecnologici e sociali che al tempo sembravano, appunto, fantascienza, mentre oggi risultano attualissimi. Centrale in questo senso è il personaggio di Matthew McConaughey, uomo di fede la cui funzione è quella di fare da paciere tra l’approccio scientifico di Ellie e le istanze più religiose e irrazionali di una parte consistente di gente di potere. Palmer Joss è quasi un santone, che predica come l’abuso di scienza, nuove tecnologie, digitalizzazione e disincarnazione delle nostre identità stiano creando un mondo sempre più teoricamente connesso ma sempre più gelido, distante e privo di calore. Sembra di sentire un’intervista datata 2018 a un qualche guru pentito della Silicon Valley, e invece parliamo di un film del 1997, che soprattutto dopo l’ultimo anno e qualcosa andrebbe fatto rivedere un po’ a chiunque.

Un’ultima considerazione (che potete saltare se non avete mai visto il film) va fatta sul finale, che a differenza di quello di altre opere di fantascienza concettuale più moderne, da Gravity a Interstellar, riesce a far coesistere due istanze apparentemente inconciliabili: la spinta a continuare a scrutare (e ascoltare) le stelle e a cercare risposte “là fuori”, e l’invito a tornare anche a guardare anche qui sulla Terra, dentro di noi, scegliete voi la formula che preferite. Contact, scritto da due persone di scienza, è in questo senso anche un ramoscello d’ulivo offerto a chi sta dall’altra parte della barricata: esiste un punto d’incontro tra scienza e fede, ci dicono Sagan e Druyan, ed è nel fatto che entrambe vanno alla ricerca della verità, e di risposte alle domande fondamentali, per esempio...

La grande domanda

Continua a leggere su BadTaste