Compie vent’anni Training Day, il gemello cattivo del buddy cop
Training Day, un film nel quale un poliziotto scopre che fare il suo mestiere non è sempre bellissimo, compie vent’anni: celebriamolo
A riguardarlo oggi, con tutto il senno di poi dei suoi vent’anni, Training Day assomiglia molto a una serie di promesse non del tutto mantenute. Antoine Fuqua, che allora era appena al suo terzo film, non ha mai più toccato quei picchi in carriera, preferendo adagiarsi su formule semplici e facilmente ripetibili. David Ayer, che l’ha scritto, ha dapprima messo in pratica le sue stesse lezioni girando una manciata di grandi thriller, per poi perdersi, forse definitivamente, più o meno tra Suicide Squad e Bright. E la serie ispirata al film è durata una stagione prima di venire cancellata senza troppe cerimonie. Sarebbe un peccato però celebrare il ventesimo compleanno della storia di Alonzo e Jake rimpiangendo tutto quello che sarebbe potuto succedere e non è successo – che poi è anche uno dei temi del film. Preferiamo dedicare qualche riga alla celebrazione di quello che è a tutti gli effetti il perfetto anti-buddy-cop.
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Quello che Hoyt non sceglie è il suo partner, Alonzo Harris, lui sì detective e con anni di esperienza sul campo – anzi “sulle strade” come ribadisce costantemente per tutto il film Denzel Washington. Il quale gioca sì in casa, ma si mette anche alla prova con un personaggio che è l’opposto polare (o il gemello cattivo, appunto) del classico detective che siamo abituati a vedergli interpretare. Violento, corrotto, egoista, sempre sopra le righe, è il bad cop della coppia, il Mel Gibson del Danny Glover di Ethan Hawke; ma invece di essere solo un simpatico sbalestrato che infrange le regole quando serve, Alonzo è un delinquente vero, protetto solo dal suo distintivo e dall’effetto che fa su quella che lui si ostina a considerare “la sua gente”, e che neanche troppo segretamente non vorrebbe altro che piantargli un proiettile in fronte.
Fuqua racconta questa storia senza mai staccare l’occhio da Jake, che in quanto rookie alle prime armi funge anche da alter ego di chi guarda: le sue scelte sono sempre le più giuste, le più etiche e quelle che qualsiasi persona decente farebbe al suo posto. La sceneggiatura di Ayer non si risparmia mai quando si tratta di emettere giudizi e non nasconde mai la sua convinzione che in Training Day ci siano molto chiaramente i buoni e i cattivi; il film è semmai un test di sopportazione, un modo per chiedere a chi guarda “e tu dove tracceresti la linea tra quello che è tutto sommato, se non accettabile, almeno giustificabile date le circostanze, e quello che proprio non lo è?”.
È nel dare la risposta a questa domanda che Training Day abbandona definitivamente il suo lato buddy cop: quando il filo si rompe non c’è più nulla che tiene insieme i due protagonisti, forzosamente o meno; e quindi il film abbandona ogni tentazione di avere un villain esterno per risolverla nell’unico modo possibile, e cioè facendo scontrare lo yin e lo yang. Incidentalmente questo scontro e tutto quello che genera è considerato da molta critica il vero punto debole di Training Day, un finale che abbandona il realismo quasi forzato delle due ore precedenti per lanciarsi nel simbolismo più puro, o più becero se preferite.
È vero che lo scarto di tono è netto, e che un paio di soluzioni narrative (una in particolare, e se avete presente il film sapete di cosa stiamo parlando) sfiorano la fantascienza; ma è anche innegabile la potenza drammatica di questi ultimi venti minuti, e soprattutto della catarsi finale. Che come nella migliore tradizione non risolve assolutamente nessuno dei problemi (quelli veri) accuratamente esposti nelle due ore precedenti, ma si limita a farci tirare un sospiro di sollievo perché, almeno per oggi, è finita. Visto tutto quello che è successo fino a quel momento, è già un miracolo così.