Come sta la Disney a 100 anni dalla sua nascita?
Un confronto immaginario tra Walt Disney e il suo studio oggi mette in crisi alcuni punti caldi delle azioni degli ultimi anni
Mentre la Casa di Topolino si apprestava a festeggiare i suoi 100 anni, Peter Bart (importante giornalista e produttore, in attività sin dagli anni ’60) pubblicava nella sua rubrica di Deadline un pezzo al vetriolo. La sua provocazione vale la pena di essere riportata perché tocca un punto caldo dell’industria cinematografica degli ultimi anni, attaccando uno dei più grandi studi di produzione: “Come reagirebbe oggi Walt Disney guardando quello che sta facendo la sua azienda oggi?”.
Disney oggi
La risposta, come il sottotesto retorico della domanda suggerisce, è: "Non bene”. Berg, che ha conosciuto Disney in persona pochi anni prima della sua morte, si fa forza dei suoi ricordi per mettere sotto accusa tre fronti caldi, corrispondenti alle tre divisioni principali dell’azienda.
Il secondo problema riguarda i parchi a tema: Disney ha infatti recentemente aumentato i prezzi dei biglietti annuali di Walt Disney World e Disneyland Resort negli Stati Uniti. Insieme a quello è cresciuto anche il costo dei parcheggi. Il motivo, dichiarato, è di sostenere un investimento di 60 miliardi di dollari nei parchi a tema che mira ad aggiornare nuove attrazioni aumentando il valore della visita nel corso dei prossimi dieci anni. Qui però il giudizio di Walt Disney può essere più clemente dato che anche lui, a poco dalla morte, era impegnato a investire ingenti somme di denaro in progetti ambiziosi. Un campus da 80 milioni di dollari per la CalArts di Santa Clarita dedicato alle discipline di animazione, teatro, danza e moda. Aveva tentato anche di costruire una stazione di sport invernali presso il Sequoia National Park, che non andò però in porto.
Il terzo aspetto su cui si punta il dito è quello della gestione della creatività, sia dal punto di vista produttivo, che da quello politico. Walt Disney, ad esempio, era contrario a vendere i diritti di sfruttamento di Mary Poppins alle TV, nonostante l'incremento dei budget dei film rendesse attraente accordi con le emittenti, perché convinto che il film avrebbe generato 7 milioni di dollari ad ogni riedizione ogni 7 anni. Una fiducia rispetto alla centralità della sala nello sfruttamento dei film, disattesa dalle mosse degli ultimi anni compiute dai suoi successori. Disney Plus è diventata centrale in periodo pandemico e lo è stata a lungo, anche con una battaglia sulle finestre di sfruttamento. La sala sembra (o è sembrata) per alcuni anni un luogo poco interessante per la casa di Topolino.
Disney e la politica
Le strade della Disney si sono incrociate con quelle della politica con il caso Don’t Say Gay or Trans (LEGGI QUI I DETTAGLI) che ha provocato imbarazzo nella dirigenza e non solo. È considerata una delle cause della “caduta” di Bob Chapek dallo scranno di CEO. L’altra chiamata ad una presa di posizione “politica” è venuta dagli scioperi combinati dei sindacati degli sceneggiatori e degli attori. Bob Iger è stato in prima linea nell’esprimere una linea dura, poco propensa al dialogo.
Anche Walt Disney si era sbilanciato in politica, salvo poi pentirsi di avere sostenuto Barry Goldwater come Presidente nel 1964. Scelta che gli ha procurato accuse di aperto antisemitismo. Disney aveva poi commentato i tentativi di un impegno politico e la loro fine: “La mia avventura in politica semplicemente non era molto interessante”.
Quello che nel pezzo non si dice è che invece anche Walt stesso usò il pugno di ferro quando si trovò a fronteggiare lo sciopero degli animatori Disney nel 1941. Lo studio all’epoca godeva del successo di Biancaneve e i sette nani e un importante processo di ammodernamento dei luoghi di lavoro. Quello che non veniva toccato dallo spirito imprenditoriale del fondatore erano però le differenze salariali. Prima scioperarono i Fleischer Studios, l’anno dopo si formò la Screen Cartoonist’s Guild coinvolgendo i principali studi. Disney era fuori, impedendo l’organizzazione sindacale. Quando arrivarono i flop di Pinocchio e Fantasia si trovò a rivedere il personale. Iniziarono i picchetti dei suoi dipendenti che vennero repressi con licenziamenti mirati. La lotta durò quattro mesi. Uno scenario non troppo differente, nel bene e nel male, da quello gestito da Iger oggi.
E quindi, come se la passa Disney?
Come una persona sulla metropolitana dopo che ha frenato di colpo. È ancora in piedi ma si regge confusamente in un equilibrio precario. Ha capito che deve trovare una nuova stabilità, ma basta uno scossone e rischia di cadere a terra.
La questione centrale, che rende azzardato il paragone con Walt Disney, è che la dirigenza di oggi si trova ad affrontare un contesto dell’intrattenimento per famiglie molto cambiato. Il modello che ha funzionato (tra alti e bassi) fino ad ora, si è rivelato fragile dopo essere stato gravemente messo in crisi dalla pandemia.
Sono tante le sfide che Disney deve affrontare a 100 anni dalla sua nascita. Ha bisogno di trovare un nuovo passo e un nuovo modo di stare sul mercato valorizzando sia la tenuta finanziaria che la capacità di creare storie innovative e personaggi capaci di vivere nell’immaginario di generazioni. Le si richiede questo: di rinnovarsi, proprio mentre la successione sembra difficile, con l’incognita del successore di Iger che torna a bussare alla porta.
In un panorama concorrenziale così acceso, rimettere al centro la fantasia, l’immaginazione e i sogni, come suggerito da Peter Bart, sono probabilmente una medicina necessaria, ma non sufficiente. Forse la domanda più giusta, per raccontare lo stato dello studio oggi, deve essere opposta a “cosa direbbe Walt Disney oggi”. La domanda che la dirigenza e gli analisti si pongono è piuttosto: “Che Disney avrebbe creato oggi Walt, per rispondere alle sfide di domani?”.
Fonte: Deadline