Come sta cambiando la rappresentazione della droga nel cinema. La strada che resta da fare è la più difficile da percorrere
Le dipendenze e la droga sono spesso rappresentate nei film come una sfida personale da vincere. Ma hanno alimentato anche molti stereotipi
Questa scena è inventata.
Ecco il secondo elemento: l’affetto dei cari. La persona dipendente dalle droghe ritorna a casa. È da lì che inizia il suo percorso. Come in Ben is Back dove un ragazzo a pezzi, ma in fase di ricostruzione della sua vita, torna dalla madre. O dal padre, come in Beautiful Boy. O in altri casi è il genitore che richiede l’aiuto del figlio, come in Elegia americana.
Il New York Times ha riflettuto su come questa rappresentazione delle sostanze stupefacenti abbia guadagnato realismo nel tempo, ma non abbia in realtà mai perso una subliminale patina affascinante. Quella tendenza a mitizzate l’emozionante e romanzato processo di guarigione.
I film sulle dipendenze confinano spesso con il film di guerra o quello sportivo. Narrativamente le opzioni sono poche. Il protagonista o la protagonista devono fare i conti con il proprio passato. Quali che siano i loro fantasmi, essi sono incarnati dalla tendenza all’abuso di droghe. Il loro percorso, l’arco narrativo e la suspense per lo spettatore, è legato alla sopravvivenza: o se ne esce o si muore.
Fuori dalla finzione, sottolinea l’articolo, il processo di guarigione reale è tutt’altro che emozionante. Per molte persone si tratta di affrontare un percorso non lineare, fatto da diversi tentativi, piccoli miglioramenti di giorno in giorno. Non c’è una demarcazione precisa, una mattina in cui ci si sveglia avendo vinto la dipendenza.
Per un film questo è un “problema”. Serve un nemico, anche se invisibile. Spesso questa figura è interna (il doppio autodistruttivo). Altre volte esterna (la famiglia disastrata incapace di dare amore, il fidanzato tentatore o così via). Ma come in un match di Rocky o si va a terra o si esce vincitori. O, alla peggio, si continua a combattere in un ciclo continuo (spesso la soluzione meno soddisfacente per lo spettatore).
Fortunatamente la dipendenza è sempre meno una scelta (a)morale, una debolezza della volontà, ma un fatto clinico. Una malattia. Molti film indipendenti riescono a mostrare bene questo aspetto. Ci sono visite con gli specialisti, medicine da prendere, amici e famigliari che si informano e incolpano la sostanza, molto meno il singolo. E se lo fanno capiscono poi di avere sbagliato.
Guarire è però sempre un atto visivamente drammatico. Richiede molto trucco sul volto per rendere irriconoscibili star spesso bellissime (come Mila Kunis in Four Good Days). Per stare bene i personaggi devono stare male, affrontare sudore, spasmi, rabbia e dolore. Senza di questi sembra impossibile trovare una catarsi che sia chiara a chi guarda.
Nell’articolo del New York Times si scrive con preoccupazione per questi stereotipi narrativi. Forse, si dice, è questo il motivo per cui i giudici americani sembrano preferire i trattamenti con naltrexone al posto delle cure di mantenimento con sostanze come il metadone. Il primo infatti è un antagonista dei recettori oppiacei che blocca gli effetti euforici e di benessere della droga, ma provoca giorni di sofferenze al paziente. Mentre il metadone è esso stesso una sostanza oppiacea che allevia l'astinenza con livelli di assuefazione minori. “I trattamenti di mantenimento”, continua l’articolo, “sono probabilmente più efficaci e non richiedono ai pazienti di stare male per una settimana, ma non seguono il percorso drammatico di un personaggio che deve raggiungere un punto di crisi che cambia la vita”.
Si cerca spesso anche nella realtà un punto di confine, una linea chiara da tracciare tra il bene e il male. Un momento in cui poter dire “ok, sei fuori pericolo”. Ma fuori dalla finzione non può essere così, mentre le storie ci stanno convincendo che lo sia.
I blockbuster, invece, tendono a mostrare le droghe spesso senza problematizzare e quasi sempre in chiave simbolica. Spesso sono i poteri stessi dei supereroi una forma di dipendenza. Ci sono i sieri del supersoldato che rischiano di arrivare nelle strade in The Falcon and the Winter Soldier. In Limitless e Lucy le sostanze aiutano addirittura ad espandere la propria mente. Altre volte i film per il grande pubblico usano la droga come MacGuffin, uno strumento che innesca l’azione. Il Corriere - The Mule parla di un anziano corriere della droga, ma il cuore del film è altrove. Anche i film d’azione come Sicario usano la droga come semplice oggetto, partendo dal presupposto che il pubblico sappia la sua negatività, l’impatto sociale e il perché vada combattuto il mercato criminale.
Il cinema indipendente è invece il regno prediletto per una visione più complessa del problema. Spesso è anche un veicolo privilegiato per attori e attrici di offrire performance strappalacrime, "svolta carriera", e in linea diretta per i grandi premi. È però positivo lo sforzo fatto negli anni per slegare la dipendenza da una debolezza personale esclusivamente psicologica e trattarla come una questione di salute. Sarà difficile uscire dalla ricerca dell’emozione o dello shock a tutti i costi, che spesso alimentano molte false credenze sul processo di guarigione. Ma sarebbe ingiusto non vedere che, per lo meno, molti autori stanno facendo un tentativo di accettare le sfumature e renderle parte del film.