Come si recita nei film di Xavier Dolan

Si procede sempre in retromarcia e per comunicare qualcosa si deve passare per l’opposto, così nasce una buona fetta dello stile di Xavier Dolan

Critico e giornalista cinematografico


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Quello che ha reso Xavier Dolan forse il più amato, conosciuto e apprezzato tra i registi d’autore emersi negli ultimi 10 anni, l’unica vera star del cinema da festival dopo il tramonto delle aspettative su Refn, è uno stile estremamente riconoscibile che unisce la buona padronanza tecnica e una certa libertà di messa in scena (che va dall’uso dei formati ad una certa voluta naivitè nell’abbinamento e montaggio della musica) ad un atteggiamento sempre fortemente adolescenziale.

Nei film di Xavier Dolan i sentimenti messi sul tavolo sono vissuti e raccontati con la forza, la decisione e la spietata logica illogica adolescenziale, anche quando sono gli adulti a provarli. Il suo è il mondo vissuto con uno sguardo eternamente adolescente, innamorato di quel modo di fagocitare, subire e assorbire eventi. Fare un cinema così preciso, audace e sofisticato, lavorando su un’emotività forte e sragionata è complicatissimo e la visione di mondo a livello teenager è una sua caratteristica esclusiva.

Per arrivare a trasformare ogni adulto, ogni personaggio secondario e ogni protagonista, in un adolescente più o meno cresciuto senza sconfinare nel ridicolo è indispensabile lavorare tantissimo sulla recitazione, campo in cui Dolan vanta la maggiore esperienza (recita in tv da quando ha 5 anni, al cinema da quando ne ha 8). Fin dal primo film, diretto con grandissima inesperienza, in modo molto elementare ma anche con una forza incredibile, così radicale, coerente, istintivo e vitale, sono i dialoghi e le interazioni a dare la forza a tutto. Molto tempo dopo, da Tom à la Ferme almeno ma con qualche anticipazione già in Laurence Anyways, arriveranno i giochi sull’immagine e un montaggio un po’ più interessante, per i primi film la recitazione e la scrittura sono i poli attorno ai quali gira tutto.

[caption id="attachment_378281" align="aligncenter" width="1427"] I giochi di immagini (capelli-coltivazioni)[/caption]

J’ai tué ma mère nella sua forza ruvida funzionava per il rapporto incredibile che il protagonista (Dolan stesso) riesce a stringere con la madre, quella componente all’epoca inedita ma poi da lui canonizzata di amore fortissimo che può esistere solo in compresenza di un odio altrettanto forte. Il lavoro con gli attori fin da quel film supera le consuetudini e mira a creare “tipi” nuovi. È un lavoro che comincia davvero nel reparto costumi (dovrebbe sempre essere così ma di fatto non lo è quasi mai) che funziona sempre mettendo in relazione l’atteggiamento dei singoli e la posizione che occupano nello spazio, l’atteggiamento che hanno davanti agli altri e (di nuovo) gli abiti o il trucco con il quale si presentano.

Uno dei segni più personali dei film di Dolan ad esempio è il “personaggio terzo”. È una sua creazione di scrittura che tuttavia funziona solo se recitata in una certa maniera. Il personaggio terzo è la vicina di casa di Mommy o Marion Cotillard in È Solo La Fine Del Mondo, qualcuno che è escluso dalla trama principale, sembra solo osservarla eppure, proprio come osservatore, si rivela una spugna per sentimenti. Il personaggio terzo di Dolan sta in panchina a lungo, ma quando entra in gioco rivela di aver assorbito tutto quel che le è passato davanti agli occhi, è un catino che recepisce il non detto, gli scontri e le diverse spinte degli altri personaggi, subendole. Non c'entra molto con l’intreccio, non contribuisce alla storia e per la sua originalità si fa spesso fatica a capire “che c'entri” ma è come se facesse una sintesi dei sentimenti in ballo, è lo spettatore presente nella scena e l’irrompere delle sue sensazioni alle volte è devastante.

[caption id="attachment_378284" align="aligncenter" width="1800"] Dare un nome a quest'espressione[/caption]

Se i personaggi centrali di Dolan sono sempre molto caratterizzati nel trucco e parrucco (si pensi agli abiti di Matthias e Maxine, alla madre di Mommy o ai capelli del protagonista di Tom à la ferme), il personaggio terzo non lo è mai, è inusualmente dimesso in come appare, non attira l’attenzione e sta da una parte. Questo contrasto tra un’apparenza dimessa e la necessità di esprimere una sintesi di tutto quello che la storia sta mettendo sul piatto, lo rende il personaggio più complicato da recitare, ci deve sorprendere con la sua improvvisa centralità emotiva ma deve anche avere una sommessa capacità di aver subito in silenzio gli scontri cui ha assistito. È remissivo ma umanissimo e solo se recitato bene è efficace.

Tuttavia anche se si considerano i ruoli più canonici, quelli protagonisti o le spalle, la cura che Xavier Dolan mette nella recitazione rimane la componente che forma di più il suo stile. Se in Gli Amori Immaginari opta per uno stile molto classico e vivace da commedia, già in Laurence Anyways comincia a usare la chiave che poi diventerà centrale in Tom à la Ferme, ovvero il continuo nascondere i propri sentimenti. Gli attori lavorano spesso a marcia indietro nei film di Dolan, per andare dove devono andare procedono come al contrario, se devono dichiarare amore recitano l’odio, se devono mostrare affetto recitano la distanza. Accade così che in quel mondo dipinto ogni sentimento sia compenetrato del suo opposto.

[caption id="attachment_378282" align="aligncenter" width="1280"] Il simbolo della recitazione nei film di Dolan: arrivare ad un punto passando dal suo opposto[/caption]

Sono premurose le madri ma anche terribilmente egoiste, sono sempre presenti gli amici ma mai davvero solidi, sono caldi gli amanti ma non prima di un periodo di totale indifferenza. Addirittura in Tom à la Ferme la storia è proprio quella di una forma di attrazione che passa per la violenza e il disprezzo, un’accettazione che però è raccontata recitando il rifiuto. Mommy si fonda sul voler stare insieme di due persone che fanno di tutto per farsi separare, il cercare di rimanere uniti minacciandosi di continuo, creandosi problemi, e l’immagine cruciale del film (il bacio dato con la mano davanti alla bocca) è incredibile per questo. Andare avanti procedendo a marcia indietro.

Se si guarda il personaggio di Vincent Cassel in È Solo La Fine Del Mondo sembra rispondere esattamente a questa idea: è uno sbruffone, inacidito, infastidito e pronto ad esplodere di fronte ad ogni miccia, ma in quell’essere testa calda ci sono tantissime sensazioni. C’è l’amore per il fratello, il sentirsi messo da parte, l’affetto per la famiglia e tutto quello che sente frustrato. Siccome, in quel caso, la sceneggiatura esita moltissimo a rivelarlo e centellina la scoperta della verità, è proprio Vincent Cassel a fare gli straordinari e creare l’evidente sensazione di essere di fronte a qualcuno che fatica a manifestare i propri sentimenti con sincerità.

Non sempre questo tipo di recitazione richiede grandi doti o un impegno superiore alla media (lo si può vedere tra poco in sala in La Mia Vita con John F. Donovan, al cinema dal 27 giugno, in cui anche Kit Harington procede così, come un gambero), dipende da caso a caso. Ogni volta però l’impressione è che mentre il film lavora moltissimo sull’impianto visivo per accreditarsi nel reame del cinema più sofisticato, per stupire (a volte anche in maniera ruffiana) con i giochi di formati e per avere un look moderno, modaiolo se è il caso (avviene in Matthias e Maxime), è nella scrittura e nella sua recitazione che ogni volta si decide la partita di un film di Xavier Dolan.

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