Com'è possibile che, 50 anni dopo, Duel non sia invecchiato?
Nonostante il tempo e le evoluzioni Duel di Steven Spierlberg, nato come film tv, oggi continua ad assumere nuovi significati
Se esiste una classifica dei migliori film per la tv, Duel è al primo posto. E senza particolari sforzi.
Tra le pochissime cose che Duel dice allo spettatore c’è che si tratta di Davide contro Golia. David è il nome dell’autista che in una giornata in cui attraversa l’America dei deserti fa uno sgarbo ad un camionista che l’ha superato con arroganza, e per ripicca viene da questi inseguito. Inseguito fino alla morte. Questo essere senza nome di cui vediamo solo dettagli ma mai il volto, lungo il film passa da reale a finzionale, da qualcosa di concreto a qualcosa di metaforico. Così vaghi sono i contorni che nella nostra testa diventa la personificazione del rancore, dell’opposizione e della colpa. Negli anni ‘70 il camionista e l’uomo di città erano categorie socioeconomiche, era l’America benestante della suburbia da cui esce David all’inizio del film, contro quella profonda e rimossa, che prova un gran rancore e che (si teme) possa vendicarsi in ogni momento. Un anno prima di Un tranquillo weekend di paura e tre anni prima di Non aprite quella porta, Spielberg dà il via a quel cinema dello scontro tra l’America dimenticata e selvaggia e quella sofisticata di città.
Oggi invece rivedere Duel fa pensare subito ad altro. Infuso del senno di poi e dello sguardo contemporaneo, Duel somiglia più ad uno scontro tra diversi modelli di virilità. È un confronto molto maschile, tra il simbolo di una virilità vecchissimo stampo (il camionista che porta contenuti infammiabili) e una più smussata, l’impiegato di città. Confronto maschile che avviene sull’automobile, mezzo tradizionalmente associato alla virilità. All’inizio, durante i titoli di testa, è il continuo cambio di stazioni radio che ci fa capire assieme alle immagini il cambio di scenario e come il protagonista sia fuori dal suo ambiente. Quando scompaiono villette a schiera, palazzi e grattacieli e arriva negli scenari desertici anche la radio passa da conversazioni più sofisticate ad altre più grossolane, comincia a parlare di “capofamiglia” e virilità tradizionale.
Lungo tutto il film ci saranno continui momenti di virilità vecchio stampo come il camion della scuola che la piccola macchina non riesce a spingere per rimetterlo in moto e invece il grosso camion aiuta con facilità.
In quello scenario è quindi plausibile quello che in città sarebbe stato assurdo: un camion grande che se la prende con la macchina piccola, l’uomo che ha fatto lo spavaldo pensando non ci fossero conseguenze e il camionista che invece vuole andare fino in fondo. E come in Cane di paglia (che invece è dello stesso anno), l’uomo di città con la sua intelligenza si rivela il più spietato. Davide che con un colpo ben assestato abbatte Golia.
Sono tutte idee e suggestioni che lo spettatore inserisce in Duel, che lo completano e lo rendono sempre attuale, perché un film che è puro meccanismo di tensione come questo non invecchia mai.
Spielberg con a disposizione un obiettivo, un’auto e un camion fa l’unica cosa possibile: lavora di inventiva come fosse un Mario Bava per creare l’illusione di una storia che non c’è mai mentre lo spettatore è preso dal confronto e dalla paura. Usando solo le armi elementari della grammatica del cinema (il jumpscare, ciò che il protagonista non sa e noi invece sì, gli indizi sull’identità del camionista, i rumori, lo sfondo che diventa primo piano…) mette in piedi un continuo confronto tra dimensioni. Tra il grande e il piccolo.
C’è pochissimo dialogo nel film e ce ne sarebbe stato anche meno se Spielberg avesse avuto più controllo. Ma importa poco, quello che gli interessava era farsi notare (e funzionò, perché grazie a questo film venne preso per Lo squalo, cioè “Duel in mare”), mostrare di essere capace di maneggiare il cinema e, cosa più importante, di maneggiare il pubblico. Quello che in Duel viene sperimentato per essere poi portato a termine in Lo squalo è quella capacità di hitchcockiana di sapere sempre come il pubblico reagirà ad ogni scena, e poterlo quindi guidare, pilotarne le emozioni e gestirne tensione, emotività, divertimento e paura. Se il regista è un burattinaio che fa muovere attori in scena, e al tempo stesso manovra gli spettatori, Spielberg a 26 anni era già un regista fatto e finito.