Come Netflix si sta mettendo nei guai con le sue "storie vere”
Il caso Baby Reindeer non è l'unica "storia vera" che ha portato Netflix in tribunale. Le spese legali diventeranno presto la prassi?
Chi trova una storia vera così incredibile da sembrare una sceneggiatura cinematografica, trova un tesoro. Per lo meno secondo la valuta di Netflix e delle piattaforme che si contendono l’attenzione degli utenti. Le storie vere sono una materia narrativa potente perché coinvolgente. Piacciono e sono efficaci nel creare engagement. Ciò che si vede sullo schermo non è distante, ma così vicino alla realtà degli spettatori da poter essere indagato, ampliato e, in qualche modo, cambiato.
Baby Reindeer e gli altri
Il caso più celebre è quello di Baby Reindeer. La miniserie rappresenta un successo clamoroso per la piattaforma. Sicuramente la reazione degli spettatori è stata inaspettata e li ha presi in contropiede. Martha, nome di finzione della stalker al centro della trama, è stata rapidamente individuata dagli utenti nonostante il creatore Richard Gadd abbia chiesto di non farlo. In pochi giorni ecco le dita di mezzo mondo puntate contro Fiona Harvey. Invitata nella trasmissione di Piers Morgan ha dato la sua versione dei fatti di una storia ispirata sì alla realtà ma, a detta della donna, estremamente esagerata. La persona e il personaggio differiscono in maniera radicale, soprattutto per il finale della vicenda. A sancire la ragione il torto ci penserà la causa intentata da Harvey contro la produzione, chiedendo un risarcimento da 170 milioni di dollari.
Baby Reindeer non è l’unica "storia vera” che ha portato Netflix in tribunale. Rachel DeLoache Williams, dipendente della rivista Vanity Fair, ha accusato la produzione di Inventing Anna di averla rappresentata in maniera diffamante. La società OneTaste, oggetto delle indagini del documentario Orgasm Inc. ha mosso una causa per diffamazione contro Netflix. Il caso è ora in appello.
Miranda Derrick ha accusato il documentario Dancing for the Devil: The 7M TikTok Cult di averla rappresentata ingiustamente. Un racconto di sette e lavaggi del cervello messo in scena a senso unico secondo la protagonista. Dopo la pubblicazione sulla piattaforma è successo quello che accade molte volte in casi come questo: alcuni spettatori hanno trovato i contatti della ragazza e le hanno inviato minacce di morte.
Quanto può andare avanti così Netflix?
Variety ha raccolto molti casi come questo, andando a delineare un quadro generale piuttosto duro contro la piattaforma. Le vittime delle ondate di odio stanno accusando Netflix di soffiare sul fuoco di alcune community raccontando delle storie ispirate a fatti reali, ma spesso false o fuorvianti. Trovando buoni e cattivi senza preoccuparsi delle conseguenze che questa narrazione può avere sulla vita vera.
Non tutti i contenuti tratta da storie vere generano per forza questo tipo di reazione. Quelli di successo quasi sempre lo fanno. La domanda quindi è: nel gioco dei grandi numeri, della crescita di interesse e di abbonati, nella ricerca di un prodotto che diventi globale, i narratori si daranno una linea rossa da non varcare? Ci sarà una riflessione su quanto romanzare e su quando la dicitura “storia vera” può essere sbandierata? O le spese legali diventeranno presto la prassi?