Come lavora David Fincher sul set spiegato a chi vuole vedere Mank

Sono tante le leggende che circondano il lavoro sul set di David Fincher. Ripercorriamo come il regista lavora con gli attori e la sua tecnica

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Ogni volta che esce un film di David Fincher si sprecano fiumi di inchiostro a riportare aneddoti dal set e le esperienze traumatiche degli attori. Come noto David Fincher ha un approccio fortemente tecnico. È un perfezionista della cinepresa, con uno stile di direzione degli attori peculiare. Il suo occhio è diverso, si muove nell'immagine come se vedesse più dettagli di una persona comune.  Lavorare con lui, così come guardare un film in sua compagnia, può essere un’esperienza stressante, come ha recentemente ricordato Steven Soderbergh:

David aveva un laser in mano e indicò una sezione sul muro nella parte alta dell’inquadratura dicendo: “Questa parte è un po’ sovraesposta“. Fui costretto a uscire dalla stanza. Andai fuori a prendere delle grosse boccate d’aria e pensai: “O mio Dio, vedere in quel modo? Tutto il tempo? In ogni luogo? Io non ne sarei capace”.

Ma Fincher è molto altro, è molto più della rappresentazione caricaturale di un regista autoritario sempre insoddisfatto. E la sua visione del fare cinema non si limita a una “coazione a ripetere” allo sfinimento della stessa scena.

Certo, i suoi film hanno un altissimo rapporto tra girato e tempo filmico. Per due ore di film gli attori possono stare di fronte a una videocamera accesa anche per duecento ore. Ma questa è una conseguenza di una filosofia, non la causa.

Nonostante quello che suggeriscono i numerosi ciak, uno degli imperativi categorici autoimposti da David Fincher è quello di arrivare sul set sapendo esattamente cosa va fatto per filo e per segno. Nella sua filosofia il regista non è colui che usa l’attore come una persona che fa qualcosa. Al contrario lavora con lui, in un processo collaborativo. Fincher definisce spesso la creazione di un’opera cinematografica come di un lavoro tridimensionale. La singola inquadratura deve essere intesa come un mezzo funzionale all’intera storia e non alla singola scena. Quando arriva al montaggio non considera quindi solo la performance nell’immediato, ma il rapporto di quel singolo momento con il resto del film.

Si capisce quindi il perché di questo “perfezionismo”. Fincher non chiede agli attori 20 take diversi che servano, prova dopo prova, per arrivare alla perfezione. Pretende invece di avere 20 versioni diverse, tutte perfette, della stessa scena da scegliere poi durante il montaggio.

David Fincher the social network

È importante ricordare che nei suoi set, tutto viene predisposto perché la scena venga eseguita dall’inizio alla fine. Gli attori non sono quindi costretti a fermarsi per ore sulle stesse due o tre battute, ma la loro performance si estende per un tempo maggiore. Per quanto riguarda lo spazio invece, Fincher lavora perché si rompa il velo che separa la realtà dal mestiere della finzione.

Le lunghe sessioni di prova servono per andare oltre la memoria muscolare. Se i personaggi sono un un luogo familiare gli attori devono conoscere lo spazio come se fosse casa loro. Non devono recitare pensando alle battute, ma a quello che penserebbe il personaggio in quel momento.

Detto questi, David Fincher sul set è molto altro. Da vasto conoscitore della storia del cinema quale è, si approccia alla storia scegliendo un pacchetto semantico predefinito. Un insieme di stili, inquadrature, linguaggi visivi, coerenti. Mank usa le tecniche degli anni ’40 del cinema. Panic Room ha un approccio postmoderno, con piani sequenza e inquadrature impossibili. The Social Network è invece più realistico, con i rumori d’ambiente che si sovrappongono al parlato.

Tutto questo è a servizio dell’immersione. I suoi film amano la tenebra, i colori sono raramente accesi e gran parte delle inquadrature sfruttano la monocromia. Gli ambienti e i costumi sono spesso espressione della psiche dei protagonisti. A volte sono perfettamente integrati in palette con l’ambiente, altre volte dissonanti. Le ombre (che in Mank sono quanto mai centrali) sono anche quelle delle sue storie. La manipolazione della realtà, i lati oscuri delle persone, l’indicibile dietro al quotidiano, sono prima mostrati e poi enunciati.

David Fincher Gone Girl

È ironico in questo senso che Fincher scelga spesso il punto di vista unico. Taglia il meno possibile, lascia che l’azione scorra in campi lunghi. I movimenti di camera sono essenziali e sempre agganciati al personaggio. Per lui i registi non creano immagini, ma realizzano cose (film) che devono risanare emotivamente nello spettatore. Tutto deve concorrere quindi (dalla fotografia al sound design) per dare una reazione emotiva a uno straniero, una persona di cui nessuno della troupe conosce i gusti e le inclinazioni.

Una piccola vibrazione della macchina a mano potrebbe quindi allontanare lo spettatore dall’immedesimazione. Uno stile di ripresa non preciso e millimetrico potrebbe, secondo lui, dare reazioni emotive differenti, comunicare messaggi non voluti. Per questo motivo, per togliere le inevitabili vibrazioni, presenti anche nei carrelli più precisi (che forse noi non vedremmo, ma lui sì), sin da The Social Network Fincher usa una particolare tecnica da lui perfezionata. Come spiegato dal New York Times Fincher, per stabilizzare le immagini in post produzione cattura un frame del 20 per cento più largo di quanto necessario. Questo eccesso di informazione visiva gli permette di correggere i tremolii e le incertezze del movimento. I suoi movimenti di macchina rappresentano così un occhio impossibile, spesso disincarnato e totalmente cinematografico.

Un’altra tecnica da lui portata nelle grandi produzioni è lo split screen invisibile. Se in una inquadratura sono presenti due personaggi, ma la recitazione di uno è perfetta, mentre quella dell’altro lo era maggiormente in un’altra scena, Fincher le fonde insieme. Attraverso uno split screen (lo schermo diviso a metà) invisibile il fotogramma viene ritagliato nelle sezioni interessate e successivamente ricomposto in post produzione. Due personaggi possono quindi interagire nella stessa inquadratura pur avendo recitato in take differenti.

Così:
David Fincher

Questo ci porta a parlare dell’uso degli effetti visivi. David Fincher ne usa tantissimi, ma mai in maniera palese. È molto simile in questo senso a come Scorsese usa gli effetti digitali: per coprire e migliorare, mai per fotografare.

Quello che è davanti, il soggetto, è sempre autentico il più possibile. Il resto dell’inquadratura può essere modificata per raccontare al meglio la storia. Migliora gli ambienti digitalmente (a volte li ricrea con il green screen), corregge colori, dettagli, messa a fuoco. È un uso molto sottile, come sempre per creare una reazione emotiva.

È questa la grande contraddizione del suo cinema: una grandissima formalità espressiva, ma quanto mai riferita all’occhio dello spettatore. Una precisione matematica per giungere alle emozioni (che, per definizione, sono irrazionali). 

David Fincher è un regista molto facile da raccontare: il suo lavoro sul set genera aneddoti e fatti incredibili. Gioca nel campionato dei grandissimi, nel raro mucchio di coloro che sono molto amati sia dal pubblico che dalla critica e che hanno sbagliato pochissimo. Ma è molto di più di tutto questo. La sua tecnica - così unica - è complessa e si estende a 360 gradi su tutto il processo produttivo. Ed è rischioso pensare di poterlo ridurre solo a un perfezionista che usa tutto il tempo a disposizione sul set. In Fincher, e quindi nei suoi film, c’è molto di più di una semplice esibizione di bravura, c'è una filosofia dello sguardo. Prendere o lasciare.

Cosa ne pensate di David Fincher? Fatecelo sapere nei commenti.

Fonti: StudioBinder, NYTimes, Variety, Outstanding Screenplay

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