Come Jean-Paul Belmondo ha creato un genere a sè
Unico baluardo europeo contro lo stra-potere degli uomini d'azione hollywoodiani, Jean-Paul Belmondo ha creato la via europea alla pistola
La Nouvelle Vague nella sua fase propulsiva era una macchina che poteva schiacciare chiunque (interi cinema fallirono sotto la pressione dei numerosissimi film “nouvelle vague” prodotti, sull’onda dei maggiori, che non valevano molto e nessuno vedeva), chi è sopravvissuto lo ha fatto distanziandosene. Belmondo era lì prima di tutti e se n’è scappato prima degli altri.
Era così evidentemente perfetto per il cinema che si accorsero di lui tutti contemporaneamente! Nel 1960 era in Fino all’ultimo respiro ma anche in Italia per La ciociara, nel 1961 in La viaccia di Bolognini e iniziava anche a lavorare con Melville in Leon Morin il prete (ma il capolavoro della coppia lo fanno l’anno dopo, Lo spione).
Diciassette film interpretati in soli due anni! E con i piedi in praticamente tutte le staffe in cui si possono tenere. Autore, commerciale, internazionale e popolare. Forse l’inizio carriera più clamoroso di tutti, che nel 1964 lo piazza alla testa di un esperimento audace che segna il suo vero amore. Perché nonostante rimarrà attore godardiano (già nel 1965 è in Il bandito delle 11, cioè Pierrot Le Fou) quello che Belmondo voleva era il cinema d’avventura, quello mainstream, l’azione, il divertimento e il grandissimo pubblico. Solo con una passione simili si possono voler interpretare da sè stunt di questo tipo (perdonate la musica, è un montaggio).
Quando la United Artist apre una divisione francese e produce il primo grande film europeo c’è lui, L’uomo di Rio (1964), un capolavoro di umorismo e avventura in cui Belmondo inventa un tipo nuovo. Sono gli anni di Bond e lui cerca di essere il Cary Grant europeo: bellissimo, sexy ma sbadato e alla mano, raggiungibile e divertente. Incassi senza senso per l’epoca lo rendono appetibile per l’America, già solo il trailer ancora fa venire voglia di vederlo.
Belmondo poteva essere anche più di quello che è stato non si fosse bruciato con l’ambizione di diventare un attore americano, con ruoli di americani. Loro vedevano in lui un Bogart (per Fino all’ultimo respiro), lui per l’appunto si sentiva Cary Grant. Belmondo è troppo bravo a divertirsi sullo schermo per non voler divertire. Avrà una piccola parte in Casino Royale (il film americano del 1967 parodia di 007) e solo in patria farà il cinema scanzonato che desidera come L’uomo di Hong Kong o anche i più famosi Il clan dei marsigliesi e Borsalino (con Alain Delon, la coppia cruciale del cinema francese anni ‘70).
Con Philippe de Broca farà altri 5 film su questo tono. Ma con un attore del genere si può fare tutto, un attore del genere salva intere filmografie. Specializzato nel piacere al pubblico, nell’essere attraente e interessante, capace di dare un afflato ironico a ogni parte ma anche portatore di una carica drammatica che gli consente di reggere La ciociara o La mia droga si chiama Julie con Truffaut.
Gli piacciono troppo le pistole per darsi unicamente al cinema d’autore. E quando le rughe gli invadono il volto diventa un modello di duro invecchiato eccezionale molto prima degli action hero anni ‘80 oggi. Mentre noi facciamo i poliziotteschi lui diventa commissario, agente segreto fregato in cerca di vendetta o poliziotto pericoloso. Gli anni ‘70 sono i suoi, fino al 1981 quando è anche crepuscolarissimo nello storico Joss il professionista.
Tutto è cambiato negli anni ‘80, i modelli maschili sono cambiati, il cinema è cambiato e di colpo Belmondo non è stato più attuale, ma nemmeno fuori moda. Un instant classic che non ha paragoni. I suoi simili erano dietro di lui. Dopo Belmondo nessuno è stato il nuovo Belmondo (non Vincent Cassel, interprete con ben meno ironia nei suoi ruoli, meno approcciabile e più spigoloso e villain d’elezione) e nemmeno il grande Jean Dujardin, molto più di commedia e scemo, più demenziale e meno avventuroso.