Clerks III non fa granché ridere ed è giusto così
Clerks III chiude (definitivamente?) la saga del Quick Stop con il capitolo più malinconico e riflessivo della trilogia
Diciassette anni fa, durante la promozione di Clerks II, l’allora trentaseienne Kevin Smith disse che “se mai ci sarà un Clerks III succederà quando avrò 40 o 50 anni, quando sarà di nuovo interessante tornare a vedere come stanno Randal e Dante”. Oggi Kevin Smith di anni ne ha 53, e come promesso allora Clerks III esiste, vive e lotta con noi su Netflix. Tra il 2006 e oggi, però, a Kevin Smith sono successe parecchie cose, la più importante delle quali è l’attacco di cuore che l’ha colpito nel 2018, durante un suo spettacolo di stand-up in California. Un episodio tremendo che ha spinto Smith a rivalutare una serie di aspetti della sua vita, e la cui eco rimbomba fortissima in Clerks III, un film che parla di morte e mortalità, di fragilità e di solitudine, di sogni infranti e di rimpianti.
Insomma: Clerks III è un film che esiste in funzione di quanto successo al suo autore cinque anni fa, e si vede.
Non che manchino alcuni dei capisaldi del franchise, né la voglia di fare gag in continuazione e di scrivere dialoghi assurdi e discussioni infinite su pezzi più o meno grossi della cultura pop. Ma in una scala da 0 a 10 dove 0 è la filmografia di Von Trier e 10 è il film più divertente che abbiate mai visto (scegliete voi quale), Clerks III è più vicino al 4 che al 10: è di gran lunga il capitolo che fa meno ridere sguaiatamente, e anche quello che più spesso rischierà di portarvi sull’orlo delle lacrime (o anche oltre). La saga di Randal e Dante è sempre stata autobiografica: Smith ha lavorato in un convenience store quando era giovane, un negozio di proprietà di un tizio che possedeva anche la videoteca di fianco e che l’aveva convinto a lavorare per lui promettendogli accesso illimitato al tesoro cinematografico del suo negozio. In Clerks III, però, l’autobiografia esce dai confini del passato, e trasforma il film in una confessione a cuore aperto del suo autore, che si confronta con la propria mortalità e persino con la futilità del tutto.
La reazione alla sua quasi-morte è il momento più meta-cinematografico di una trilogia che si nutre di momenti meta- fin dal primo giorno: Randal decide di girare un film nel quale racconta la sua vita da commesso del Quick Stop. Non solo: decide di girarlo in bianco e nero, e di far interpretare tutti i personaggi dalle loro controparti reali. In altre parole, Clerks III diventa retroattivamente un film sul concepimento e realizzazione di Clerks, in una mossa circolare che vuole chiudere tutti i conti con il passato, dei personaggi e del franchise. L’idea diventa una scusa per riportare in scena una serie di figure viste nei due film precedenti: Clerks III è un film che va all’indietro più che in avanti, che riflette, con il senno di poi di un infarto quasi letale, su tutto quello che sappiamo di Randal, Dante, Elias e tutti gli altri.
Il rischio è quello dell’ombelicalità estrema, dell’autoreferenzialità fine a sé stessa. Kevin Smith lo scongiura decidendo di iniettare una bella dose di realtà nel mondo quasi-fantastico nel quale vivono Randal e Dante. A partire dalla scelta (che forse è uno SPOILER?) di ammazzare il personaggio di Becky (Rosario Dawson), investita da un guidatore ubriaco poco tempo dopo la fine di Clerks II, quando era già incinta del primo figlio suo e di Dante. La morte di Becky non le impedisce comunque di essere un personaggio decisivo per la storia (Dante la vede ancora e ci parla in continuazione), ma è indicativa di un gigantesco cambio di prospettiva di Kevin Smith: è come se l’infarto lo avesse portato a riconsiderare ogni singolo aspetto della sua vita, compresa l’apparente futilità di tutto quello che ha fatto fin qui (“A cosa serve aver girato tanti film e aver fatto ridere tanta gente se poi sono morto?” è la domanda inespressa di Clerks III).
Il risultato è un film nel quale le gag sono un sollievo, perché risollevano, anche se solo temporaneamente, il morale di un’opera che è intrisa di pessimismo e malinconia. È quasi un miracolo che le poche parti genuinamente comiche funzionino e riescano a strappare un sorriso e a volte persino una risata di cuore: è chiaro che il focus di Smith è altrove, e che Clerks III è un film sulla morte e soprattutto sull’invecchiare, sull’inevitabile decadimento fisico e sugli effetti che questo ha su persone che fino a due giorni prima pensavano solo a mangiare schifezze, discutere di Star Wars e fare battutacce.
Non è insomma il Clerks che abbiamo conosciuto con i primi due film, che pure vengono omaggiati in continuazione – ma da una certa distanza, con quel minimo di distacco che nasce quando una tragedia ti ha costretto a rimettere tutto in prospettiva. È significativo che il personaggio che più di tutti si oppone a questa deriva sia quello che per primo la subisce: Clerks III è anche (soprattutto?) una parabola di redenzione, un’epifania che si manifesta lentamente e faticosamente, e contro la quale Randal rema con tutte le sue forze residue perché non ha alcuna voglia di invecchiare e di fare i conti con la realtà.
Clerks III è talmente sincero, talmente vulnerabile e fragile, che fa passare ogni voglia di individuarne i difetti (e ce ne sono), di puntare il dito sui suoi punti deboli. È un film (passateci la battutaccia) di cuore più che di testa: a tratti sembra quasi che Kevin Smith voglia chiederci scusa perché non vuole (o addirittura non riesce) a farci ridere come una volta, perché non è facile rimanere sereni dopo aver visto la morte in faccia. Ecco, il modo migliore per descriverlo è proprio questo, per opposizione e contrasto con i precedenti: non è un film spensierato. È una secchiata di acqua gelida della quale Smith per primo aveva bisogno, e che ci arriva in faccia con una violenza inaspettata, mai vista prima nel c.d. View Askewniverse. Non è neanche lontanamente il migliore della trilogia, ma oggi è forse quello più interessante, nella misura in cui la personale tragedia di Kevin Smith è abbastanza universale da potersi applicare a chiunque sia cresciuto con i commessi del Quick Stop.
Dove la parola chiave è proprio “cresciuto”: sono vecchio, siamo vecchi, ci dice Kevin Smith, e non ci possiamo fare proprio un ca**o.