Chiamami col tuo Nome trasforma il teen movie classico nel ricordo di un teen movie

Lavorando sui sensi che il cinema non può trasmettere Chiamami col tuo Nome funziona come la memoria, per rievocazioni e crea l'estate di Guadagnino

Critico e giornalista cinematografico


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Ci doveva pensare Luca Guadagnino a fare un teen movie in Italia, il paese che sembra non saperli più concepire.

Chiamami col tuo nome è il racconto di un’estate e del primo amore di un diciassettenne, esattamente ciò che raccontano i teen movie. Tuttavia, invece che far aderire la forma al contenuto, invece cioè di girare la storia di un teen movie nella maniera in cui ci aspettiamo che sia messa in scena, lo fa in tutt’altra, battendo proprio su altri percorsi.

Quello di Chiamami col tuo nome infatti non è il racconto di un primo amore, ma il racconto del ricordo di un primo amore. Scegliendo di svicolare i consueti passaggi come le dichiarazioni accorate, i sensibilissimi sguardi sull’orizzonte, gli ansimare ravvicinati e tutto il repertorio di luoghi comuni attraverso i quali viene raccontata la nascita di un sentimento al cinema, Guadagnino riesce anche far lavorare il cervello dello spettatore assecondando i percorsi che sono propri più della memoria che della percezione trasformando il culto della nostalgia tipica del teen movie (che basa il suo successo sull'esistenza nella testa dello spettatore di un'estate dagli umori simili a quelli del film) in vero e proprio utilizzo dei meccanismi della memoria.

Come per i ricordi infatti la storia di Elio ed Oliver è evocata tramite i sensi, principalmente quelli che il cinema non può trasmettere (olfatto, gusto, tatto) e per rendere i quali deve lavorare di sinestesia tramite udito e vista. È una serie di ricordi a partire da un costume che gocciola, dal gusto della pesca, dal rompersi e tracimare del rosso di un uovo, dalla sensazione della pelle contro l’erba al sole, dal refrigerio dell’abbeveratoio o ancora dalle cicale, dal fruscio delle foglie, dalle coperte di lino e dai piedi nudi sul pavimento in cotto... Si potrebbe andare avanti a lungo ad elencare serate in discoteche all’aperto, partite a pallavolo con corpi sudati e l’odore della città deserta subito dopo pranzo, Chiamami col tuo Nome ha il rarissimo dono di evocare ognuna di queste situazioni lavorando sul primissimo piano come sul totale, sul dettaglio e sulla capacità di indirizzare lo sguardo dello spettatore, in tutta un’inquadratura esattamente sugli elementi che gli interessano.

È il ricordo di Elio, che nelle parole dello stesso Guadagnino da grande diventerà un grande compositore, la sua rievocazione di quell’estate del 1983 e di quella storia, fatta attraverso le sensazioni che provò e le memorie sensoriali, fatta attraverso le musiche che studiava, trascriveva e suonava, al pari di quelle che erano nell’aria nell’estate di quell’anno.

Capita raramente di assistere ad un film che si può permettere il lusso di coprire parzialmente le voci dei protagonisti che parlano con il rumore della natura che gli sta intorno, costringendoli quasi ad urlare per farsi sentire dallo spettatore, felice di mettere in primo piano tutto quello che è intorno a loro prima di loro. Felice di raccontare l’esperienza prima dei personaggi (di cui sappiamo ben poco alla fine del film).

E l’esperienza è anche quella di una vita borghese intensa, l’esatto contrario di quello che solitamente il cinema ci racconta, cioè che una dimensione realmente panica della vita può esistere solo a livello popolare, l’unico autentico perché la borghesia (e quella alta ancora di più) è ancorata a schemi, rigidità e ipocrisie che lavorano contro i sentimenti autentici e a favore dell’apparenza. La famiglia di Elio invece è l’esatto contrario, è un agevolatore emotivo proprio perché alto borghese, coltissima e libera. Una famiglia in cui, al contrario di quel che solitamente si crede e si rappresenta delle famiglie alto borghesi, nulla è dove sta per ragioni d’apparenza ma anzi tutto è lì per sostanza. Non sono pura apparenza i molti libri, vista la cultura e la conoscenza dei genitori di Elio, e non lo è il pianoforte, visto quanto è suonato e studiato. Tutto ciò che altrove servirebbe a definire uno status e fare arredo qui è uno strumento appassionato e utilizzato. Addirittura anche i modi borghesi, la cortesia e quella forma di rispetto vecchio stampo che esiste tra genitori e figlio non sono di facciata ma autentici.

In tutto questo Elio è il trionfo di un’educazione sofisticata, un avido lettore e come già detto un musicista prodigioso (improvvisa al piano un arrangiamento alla Liszt di un pezzo di Bach e uno alla Busoni dell’arrangiamento alla Liszt, per divertimento), nonché un ragazzo coltissimo che parla tre lingue. In qualsiasi altro film o altra storia la rappresentazione di un simile personaggio sarebbe andata nella direzione del secchione impacciato, qui invece Elio è molto cool, si gode la vita come la cultura, ha una ragazza ed è attratto da un uomo. È esattamente per questo che Timothée Chalamet ha una nomination all’Oscar, perché questo contrasto che ha scarsi precedenti a cui rifarsi è accennato solo sommariamente nella sceneggiatura (il film non è centrato su questo aspetto della sua personalità) per cui sta unicamente a lui dargli sostanza, riceverlo dal copione e dalle istruzioni del regista per poi farne qualcosa e renderlo plausibile. Interpretare insomma qualcuno di credibile inventando in ogni scena un modo per rendere reale qualcosa che al cinema solitamente non vediamo o al limite risulta facilmente antipatico.

Questo coming of age rievocato tramite i sensi è però anche indubitabilmente una storia estiva, il genere che il cinema adora per come eccita cavalcando il carattere di territorio di scoperta sessuale e sentimentale dell’estate. Per questo moltissimo dello sforzo del film è nella resa della stagione, del senso intimo dell’unico periodo estraneo al lavoro, quello che la famiglia di Elio dedica ad una sorta di ozio produttivo, alla latina, il prolungamento delle attività invernali ma con un atteggiamento più rilassato e giocoso, finalizzato non al guadagno di uno stipendio ma al piacere personale. E in questo un grazie speciale va a chi il film l’ha montato, Walter Fasano, da sempre collaboratore di Guadagnino e con lui (non a caso) anche sceneggiatore. Quel ritmo un po’ molle, sonnecchiante e a tratti invece dinamico, viene da come il film sceglie di rimanere con le inquadrature o scappare via verso un’altra.

C’è una così evidente messa in scena dell’edonismo e tuttavia una maniera così pudica nel farlo, che quasi questo viene scambiato per altro. Invece è la ricerca di un piacere intellettuale che muove le azioni del padre, le discussioni con Oliver e ovviamente l’interesse di Elio verso la musica e quello dei due per le donne al pari di loro stessi. Questa è l’estate di Guadagnino nella stessa maniera in cui lo è il sole ad una certa altezza e le tapparelle abbassate anche di giorno per tenere fresca una casa che si direbbe costruita per il film tanto è perfetta, con quel bagno in comune (in realtà l’hanno trovato e inserito nella storia), uno dei rari casi che dimostrano quanto un film non parli solo con l’arte della letteratura, della recitazione, della fotografia o del montaggio, ma anche alle volte con quella dell’architettura.


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