Chernobyl Diaries è tutte radiazioni e niente arrosto
Chernobyl Diaries è una spettacolare rappresentazione del disastro nucleare su cui è stato montato un film mediocre
I film horror, in particolare quelli che hanno come protagonisti un gruppo di giovani compresi tra i 20 e i 35 anni di età, si possono dividere in due macrocategorie: quelli dove il gruppo è composto da gente simpatica e per la quale fare il tifo, e quelli dove il tifo lo si fa per il mostro/serial killer di turno, nella speranza che faccia fuori i protagonisti nei modi più creativi e crudeli possibili. A questa seconda categoria appartengono sia quegli horror dove il mostro/serial killer è il vero protagonista, sia quelli dove si finisce per prendere le sue parti perché gli esseri umani per cui dovremmo parteggiare sono un branco di insopportabili cialtroni. Chernobyl Diaries riesce nell’impresa di avere mostri non particolarmente memorabili, anzi, ma che lo diventano a forza nel momento in cui ci rendiamo conto che sono l’unica soluzione (a parte spegnere la TV) per toglierci di mezzo i sei protagonisti.
Il fatto di essere diventato famoso grazie al trucchetto delle riprese amatoriali, però, deve aver confuso il nostro eroe, che scrive e imposta Chernobyl Diaries come se fosse un altro erede di Blair Witch Project, trova un regista che lo voglia girare in quel modo lì, poi si distrae e se ne dimentica; il risultato è un horror come tanti altri, che indulge spesso nella confusione creativa tipica del sottogenere e che non abbandona mai la camera a mano e le riprese finto-amatoriali, con un setting e una storia che peraltro si prestano perfettamente al found footage, ma che di fatto non è altro che l’ennesimo monster movie con le creature mutanti che vivono nell’ombra, solo ambientato in Ucraina invece che nelle paludi della Louisiana o in una miniera d’oro sepolta tra le nevi del Wyoming.
Se non ci credete provate a guardare i primi dieci minuti di Chernobyl Diaries (e pensate anche al titolo) e veniteci a dire che non sembra un film che raccoglie le riprese amatoriali di un gruppo di turisti americani che vanno in visita a Prypjat per provare il brivido di una carica radioattiva che ti fa venire un tumore alla pelle in trentacinque secondi netti. Il poco tempo che il film dedica alla presentazione dei personaggi è una collezione di scenette che sembrano uscite dal cellulare di uno a caso tra Paul, Chris, Amanda e Natalie, le quattro vittime sacrificali di turno, che stanno facendo un giro dell’Europa dell’est e che incontriamo all’inizio del film a Kiev, dove abita per l’appunto Paul. Il quale è un tipo molto simpatico ma non particolarmente furbo: il giorno prima ha conosciuto Uri, un gigantesco camionista ucraino che fa l’operatore turistico e organizza “tour estremi” in zone assurde tipo la città abbandonata nei paraggi del reattore esploso di Chernobyl, e ora vuole convincere gli altri tre a provare l’esperienza di esplorare i dintorni di uno dei luoghi più radioattivi del mondo – il tipico gusto del brivido tutto americano che porta la gente a farsi massacrare in ostelli malfamati o in mezzo alla giungla a farsi divorare dai cannibali.
La scelta di Prypjat come sfondo per le disavventure dei quattro (che diventano sei quando al tour si unisce anche la coppia formata dalla svedese Zoe e dall’australiano Michael) è vincente, e costituisce da sola il 90% del valore del film. E tutto questo nonostante Chernobyl Diaries non sia stato girato lì, ma in una base aerea della Soviet Air Force ormai in disuso e in una serie di tunnel che corrono sotto Belgrado, in Serbia; la cosa curiosa è che a sostenerlo è un post su questo sito, che è il sito ufficiale di un’agenzia di tour operator che organizzano viaggi a Prypjat – in sostanza sono Uri ma nella vita vera, e noi tendiamo a fidarci di loro se dicono che Chernobyl Diaries non è stato girato nel luogo del titolo (a proposito, una gita di due giorni a Prypjat e dentro la centrale di Chernobyl costa 449€).
Esiste la magia del cinema, però, no?, e se c’è una cosa che bisogna riconoscere a Oren Peli è la sua capacità di cavare sangue dalle rape: Chernobyl Diaries non è girato a Chernobyl ma se non lo sapessimo non ce ne accorgeremmo, perché la gita-che-diventa-tragedia dei nostri sei eroi li porta a passeggiare tra grigissime rovine, soffocate dalla vegetazione e infestate da cani ferocissimi e persino da un orso bruno, che restituiscono alla perfezione quel senso di desolazione e insieme pericolo imminente che associamo alle “zone contaminate” almeno dai tempi di Stalker di Tarkovski. Mettiamola così: la Prypjat del film di Brad Parker è una Prypjat del cuore e in quanto tale funziona, anche se più che assomigliare a quella vera assomiglia a quello che noi pensiamo sia l’aspetto di quella vera.
Tutte queste lodi per i set, e persino per la fotografia livida e glaciale, sono in realtà una scusa per non arrivare alla parte dolente, e cioè che le disavventure di cui parlavamo prima... non sono particolarmente interessanti. E non solo perché a viverle è un gruppo male assortito di persone più o meno insopportabili (fa in parte eccezione la Amanda di Devin Kelley), ma anche perché a conti fatti si rivelano nient’altro che una sequela di jump scare tra il telefonato e il prevedibile – il sempre affidabile Where’s the Jump ne conta 16, 14 dei quali classificati come “minori” –, animati da scelte idiote perfettamente in linea con la tradizione del genere, e che vorrebbero rendere il film una versione esteuropea di Le colline hanno gli occhi, con scarsissimo successo. Tutto quello che funziona in Chernobyl Diaries lo fa perché Chernobyl ormai è diventata un pezzo indelebile del nostro immaginario, e qualsiasi storia sia ambientata tra le sue rovine si può appoggiare su centinaia di opere precedenti, libri, film, videogiochi. Tutto il resto, tutto quello che ci ha messo Peli, è invece un ammasso di nulla; piacevole da guardare, a meno che non abbiate l’allergia alla camera a mano, ma pur sempre nulla.