CGI e Motion Capture: come cambiano i gusti del pubblico?

La tecnologia applicata al cinema sta cambiando i gusti del pubblico. Quali sono le nuove sfide dei narratori del grande schermo?

Redattore su BadTaste.it e BadTv.it.


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Al cinema, la tecnologia ha cambiato e sta ancora cambiando i gusti del pubblico. Il fotorealismo de Il Libro della Giungla di Jon Favreau è soltanto l’ultimo esempio di uno standard qualitativo che impone ai cineasti sia una solida padronanza del mezzo che una forte etica della responsabilità. In gioco c’è la possibilità di continuare a appassionare gli spettatori, scongiurando il rischio di appiattire il grande spettacolo in un grande esercizio di stile. Favreau è riuscito a centrare l'obiettivo, ma il suo film è il prodotto di tante tappe intermedie che lo hanno preceduto. Vediamo come negli ultimi anni il cinema, tra alti e bassi, ha utilizzato CGI e motion capture per raggiungere nuovi picchi di realismo e dare nuova linfa vitale all’industria e alla propria capacità di raccontare storie per immagini.

Questo è il tuo Avatar adesso 

“Che ne pensi?” chiedeva Ellie Sattler a Alan Grant dopo aver visto le potenzialità del Jurassic Park. “Che siamo disoccupati” replicava sarcasticamente Grant. “Non è meglio dire estinti?” faceva eco Ian Malcolm. La battuta di Jeff Goldblum non era prevista nel copione: fu aggiunta da Spielberg che la sentì da un impressionato Phil Tippet dopo aver visto i risultati della ILM nel ricreare i dinosauri digitali. Nel 2016 gli attori non si sono certo estinti, ma lentamente entra in scena ciò che in un futuro sempre più vicino potrebbe essere un competitor in più: una CPU con una potenza di calcolo in continua crescita. La tecnologia digitale consente di animare anche l’ultimo pelo facciale delle sopracciglia, portando le animazioni a nuovi livelli di fotorealismo. Buffo definire Il Libro della Giungla come un live-action tratto da un cartone animato: anche il bel film di Jon Favreau non è che un grande e riuscitissimo cartone digitale nel quale un attore recita essenzialmente da solo. Il film funziona? Assolutamente sì, il che dovrebbe far riflettere sulle possibilità che la manipolazione dell’immagine ha già aperto tanto nel campo dell’entertainment quanto nelle applicazioni che coinvolgeranno sempre più la vita quotidiana delle persone.

Se è vero che andiamo verso la società tech del mondo de I Pronipoti, in cui la domotica e lo smart living sostituiranno i lavori domestici, guardando Downton Abbey ci sarà qualcuno che si chiederà “Chi sono quelle persone che puliscono le cose?”. Allo stesso modo, come spesso accade, i voli pindarici del pessimismo umano hanno portato a chiedersi se in futuro anche la recitazione sarà qualcosa di obsoleto. L'arte di plasmare un'identità fittizia e di passare dalla persona al personaggio è qualcosa che l'intelligenza artificiale sarà in grado di replicare? La capacità delle macchine di rappresentare per immagini la realtà con un realismo sempre maggiore viaggia a ritmi ben più veloci di meccanica e robotica. Oltre alle teorie inflazionate di Matrix, nel 2008 Wall-E di Andrew Stanton ha previsto con eleganza il sopravvento della macchina sull'uomo: in futuro, sostanzialmente, nessuno farà più niente. Ma soprattutto, la lobotomizzata umanità del film Pixar era incapace di stupirsi di qualsiasi cosa proprio perché bulimica di contenuti multimediali. E' uno scenario inquietante, ma non è detto affatto che sia un destino. Anche 20 anni fa si era previsto che la tecnologia avrebbe consentito a tutti di lavorare meno. In parte è successo, ma nella forma della disoccupazione tecnologica. Non proprio ciò che ci aspettavamo. Per tanta gente, gran parte del tempo libero che si è creato è dedicato alla disperata ricerca di un impiego, e non alle tanto celebrate vacanze da godersi mentre le macchine lavorano per noi. O meglio, lavoriamo meno proprio perché le macchine sono sempre più in grado di sostituirci, ma al contempo socializziamo sempre più attraverso filtri digitali. E il cinema, nella sua capacità di cogliere al volo il mutamento sociale e il comune sentire, non è stato a guardare. “Questo è il tuo avatar adesso” svelava Norm Spellman a Jake Sully in Avatar, che giocava proprio sulla doppia accezione del termine sia in teologia (nella quale Avatar è un termine derivato dal sanscrito che indica la discesa della divinità sulla terra) che nella realtà virtuale (nella quale l’avatar è, per l’appunto, l’immagine che simboleggia la nostra presenza in una community). E’ anche questa la ragione per la quale il film di Cameron è stato l’ultimo vero momento in cui si è provato stupore sul grande schermo. Il viaggio su Pandora è stato, in sintesi, l’ultima grande esperienza cinematografica capace di destare curiosità e meraviglia, a prescindere dal nostro libero e più che legittimo giudizio sul campione del botteghino globale. E’ stato nella natura stessa del film fare un uso massiccio di tutta la tecnologia più all’avanguardia del settore: CGI, Motion Capture, stereoscopia, 3D nativo, IMAX. Prova ne è che il continuo rimandarne l’uscita nelle sale (pratica già nuovamente in atto per i chiacchieratissimi sequel) si dovette proprio al continuo inseguire l’ultima innovazione, pronta a divenire obsoleta in poco tempo.

Prima di Pandora, la trilogia de Il Signore degli Anelli è stata un evento non solo grazie alla capacità di Peter Jackson di interpretare il potenziale cinematografico del romanzo di Tolkien, ma anche per via del particolarissimo momento in cui, forse per la prima volta, esisteva la tecnologia necessaria a rendere giustizia a un prodotto del genere. Jackson non era una superstar, non era americano, non aveva coinvolto volti noti dello star system, girava il suo film in Nuova Zelanda e, soprattutto, si avvaleva delle maestranze locali e della WETA, la sua compagnia che porta il nome dei grossi insetti della fauna locale. La grande superstar del suo film era la tecnologia, perché la trasposizione cinematografica della Terra di Mezzo era stata accantonata per decenni per via dei mezzi insufficienti a rappresentarla in maniera credibile. “Vi prego Vossignoria, non trasformatemi in qualche strana creatura!” implorava Sam Gamgee al buon Gandalf ne La Compagnia dell’Anello. “No, forse no. Ho pensato a una soluzione migliore” sentenziava il buon vecchio barbagrigia. E anche Jackson ebbe un’idea migliore di un uso freddo del digitale per portare alla luce Gollum: Andy Serkis ricoperto di sensori ha nobilitato il motion capture con un’interpretazione dello schizofrenico Smeagol degna del teatro dell’assurdo. Serkis non è stato propriamente un pioniere, ma uno dei primi a fare un uso massiccio e sapiente di una tecnologia ad altissimo potenziale.

Prima di Serkis, il povero Ahmed Best aveva visto la propria interpretazione di Jar Jar Bink in Star Wars: Episodio I - La Minaccia Fantasma trasformarsi in una clamorosa arma a doppio taglio. Lo scarso appeal del personaggio sul pubblico fece passare in secondo piano l’importantissimo traguardo che Jar Jar ha rappresentato per gli addetti ai lavori. Oltre, neanche a dirlo, a stroncare ingiustamente la carriera del povero Best. In effetti, uno degli aspetti che riempie il motion capture di fascino è la sua capacità di rendere indispensabile il lavoro umano. E dunque, di risentirne anche delle storture. E’ a tutti gli effetti una tecnologia “calda”, che si serve della fisicità e dell’espressività di chi è chiamato a fare da scheletro, volto e voce alle creature più disparate del grande schermo. Prova ne é che Serkis è oggi una celebrità mondiale e che, dopo la regia della seconda unità de Lo Hobbit, dirigerà per la Warner Bros. un ulteriore live-action de Il Libro della Giungla. Per contro, lo sfortunato Best, dopo La Minaccia Fantasma, ha potuto a malapena lavorare a Robot Chicken (serie per la quale ha comunque ricevuto un Annie Award).

Eppure, è anche grazie all’odiatissimo Gungan nato dalla mente di George Lucas che si è giunti negli anni ai risultati di Davy Jones in Pirati dei Caribi - La Maledizione del Forziere Fantasma, personaggio che convinse James Cameron di essere sulla strada giusta nel dare vita al popolo Na’Vi. Nel '97, Cameron aveva già sperimentato con successo un meccanismo di sostituzione digitale dei volti: in Titanic, quando Jack e Rose vengono travolti dall'acqua nei corridoi della nave, in alcune riprese i volti di Leonardo DiCaprio e Kate Winslet sono stati incollati digitalmente ai corpi delle loro controfigure. "I computer e la cinematografia umanistica non si escludono a vicenda" aveva dichiarato allora Cameron, sdoganando un uso massiccio del digitale in un kolossal in costume. Anni più tardi, il motion capture è diventato il vero e proprio make-up digitale del nostro tempo. Di fatto, abbiamo applicato al cinema un tecnologia nuova facendone, al momento, un uso creativo al servizio dei narratori più visionari. Come evolverà il suo utilizzo nei prossimi decenni? Molto distopica l’ipotesi spielberghiana del futuro di Minority Report, in cui lo spregiudicato Rufus Riley manipolava le immagini dei suoi frustratissimi clienti facendo vivere loro esperienze virtuali realistiche. “Io voglio uccidere il mio capo” sentenziava un nuovo cliente, e Rufus replicava placidamente “Hai un’immagine su cui lavorare?”. Se è vero che in un semplice Mac abbiamo oggi del software che fino a pochi anni fa era riservato (anche per via dei costi) solo ai grandi studios, quanto tempo passerà prima che la facoltà di ricreare sequenze fotorealistiche a partire da una qualsiasi immagine sia, potenzialmente, alla portata di tutti? Persino le mille implicazioni etiche del manipolare l’immagine altrui potrebbero non essere così scontate: se anni fa vi avessero detto che avreste spontaneamente condiviso con migliaia di sconosciuti foto e video della vostra vita privata, avreste pensato a una sorta di incubo fantascientifico. Tuttavia, oltre a distopie e apocalittiche visioni sociali del futuro, il cinema ha spesso giocato sull’evoluzione tecnologica come fonte di equivoci anche in chiave brillante: “Ecco a voi… Simone!” esclamava Viktor Taransky in S1m0ne di Andrew Niccol, nel quale Al Pacino interpretava un regista in crisi creativa che presentava al mondo proprio la bella Simone, un’inesistente e fittizia donna digitale spacciata per una schiva e misteriosa diva. Anni dopo, resuscitare grazie al digitale il compianto Paul Walker nell’ultimo Fast & Furious non è stata pura fantascienza, ma ordinaria amministrazione. Con l’aiuto del fratello dell’attore scomparso e grazie a un’attenta manipolazione delle sequenze d’archivio, replicare il volto e le movenze di Walker ha consentito di completare le scene mancanti all’appello senza sacrificare il copione. Buffo e allo stesso tempo inquietante pensare all'analogia con il film di Cameron, nel quale Jake Sully veniva reclutato su Pandora proprio perché era l'unico essere umano compatibile con l'avatar del fratello.

Paul Walker CGI

Alcuni dei risultati migliori dell’evoluzione della CGI riguardano proprio le animazioni facciali e le fattezze umane degli esseri digitali. Già nel 2000, un uso accorto del digitale aveva consentito a Ridley Scott di terminare alcune scene de Il Gladiatore anche dopo la morte di Oliver Reed. Sempre più, quando gli attori non ci sono, subentrano i loro comprimari digitali come delle vere e proprie controfigure di ordinanza. Rick Dekard, forse, li chiamerebbe replicanti, ma non sono che l’evoluzione dei vecchi modelli poligonali, pompati da una potenza di calcolo esponenzialmente maggiore e opportunamente sfruttata nei campi più disparati, a partire dai videogiochi. Non è un caso che un passaggio importante dell’animazione digitale degli esseri umani sia venuto dai software della vecchia Squaresoft (oggi Square-Enix) che mostrò i muscoli con Final Fantasy: The Spirits Within, uscito nelle sale nel 2001. Il film fu un fiasco al botteghino, ma in tutto il mondo venne riconosciuto il traguardo raggiunto da Hironobu Sakaguchi nel realizzare un lungometraggio animato e fotorealistico capace di dettare nuovi standard per l’intero settore. Cos’è cambiato, tuttavia, negli ultimi anni? Proviamo a estrapolare qualche conseguenza di un uso più maturo dei pixel sul grande schermo:

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Superstar e animali fantastici

“Leoni, tigri, pantere!” esclamavano spaventati Dorothy e l’uomo di latta nella giungla de Il Mago di Oz. Il film che nel 1939 poteva vantare straordinari effetti speciali oggi è fonte di riflessione non solo su come la tecnologia abbia progressivamente cambiato ciò che vediamo, ma anche su come abbia influenzato le storie che, come pubblico, ci aspettiamo ci vengano raccontate. Non c’è più alcun limite, anche in fase di sceneggiatura, su cosa possa essere mostrato e cosa no. Il che è un arma a doppio taglio: può consentire agli autori di avventurarsi nelle soluzioni più fantasiose o permettere loro di scriverne sempre meno se “a quel punto subentrano i ragazzi con la CGI”. Ne fece le spese La Mummia - Il Ritorno, che propose nel gran finale uno scontro con un Re Scorpione realizzato con un digitale pessimo, che vedeva Dwayne Johnson ridotto a una creatura animata al di sotto degli standard dei filmati della prima Playstation. Tuttavia, al cinema, l’animazione digitale è ancora qualcosa di relativamente costoso. Ma chissà che con l’appianarsi dei costi (già ridotti rispetto ad appena un decennio fa) gli attori non inizino a stipulare contratti di utilizzo e di manipolazione della propria immagine a futura memoria: nel 2014 ne faceva le spese Robin Wright in The Congress di Ari Folman, nel quale l’attrice interpretava una versione di se stessa che cedeva i diritti della propria immagine a uno studio cinematografico, consegnando a una major la possibilità di manipolarla a proprio piacimento. I risultati, del tutto inaspettati, la trascinavano in un paradossale incubo della memoria e dei sensi. Diverso è invece il caso del digitale utilizzato per svecchiarsi un po’, come un vero e proprio ritocchino d’altri tempi. Alcuni attori si godono già la possibilità di togliersi qualche ruga: se avete visto Ant-Man avrete notato il gustosissimo incipit con un Michael Douglas quarantenne.

Michael Douglas Ant-Man

Come accade quasi sempre quando si ha a disposizione uno strumento nuovo, occorrono anni prima che se ne capiscano in pieno potenzialità e rischi. Dal cavaliere di vetro di Piramide di Paura (realizzato nel 1985 dai ragazzi di Pixar, 10 anni prima di Toy Story) fino agli abitanti della giungla di Mowgli nell’ultimo film di Jon Favreau, è passata tanta acqua sotto i ponti. Osservando Shere Khan e la tigre Richard Parker di Vita di Pi, tornano alla mente i protagonisti di Due Fratelli di Jean-Jacques Annaud: due splendidi esemplari di tigre, separati da cuccioli, destinati a incontrarsi nuovamente in età adulta. A detta di Annaud, Due Fratelli non contiene effetti speciali: tutto ciò che vediamo è stato girato dal vivo davanti alla camera, con vere tigri e vere interazioni tra umani e animali. Il suo film, non a caso, ebbe una lunga, travagliata e meticolosa produzione che risentì, nei tempi e nei costi, di tutti i limiti del lavorare con animali veri. Oltre all’aspetto etico e al dovere di assicurare agli animali un trattamento dignitoso (spesso negato e relegato a un semplice disclaimer nei titoli di coda), per anni il grande schermo ha dovuto dilatare incredibilmente i tempi di produzione, alla ricerca della sequenza perfetta. Nel 1995 girare Babe - Maialino Coraggioso fu lungo e faticoso, ma l’Oscar per gli effetti speciali fu tra i più meritati del suo decennio: i protagonisti di Babe (figlio di una squadra di fuoriclasse, da George Miller come produttore al compianto Andrew Lesnie alla fotografia), presero vita grazie a una riuscita commistione di animali veri, animatronic e eccellenti animazioni digitali sul labiale e sull’espressività del muso delle varie specie.

Guardare oggi le scimmie di Jumanji (classe 1995, con un reboot in arrivo) e confrontarle con i risultati de L’alba del Pianeta delle Scimmie e dello stesso Il Libro della Giungla, fa quasi pensare a un ventennio di nuove scoperte nell’evoluzione della specie. Anche i Raptor di Jurassic World sono diversi da quelli di Jurassic Park del ’93, ma anche perché da allora abbiamo scoperto nuovi dettagli sul loro design originario (pur continuando a esagerarne palesemente le dimensioni). Le scimmie sono invece su questa terra con noi e, grazie alla WETA, sono divenute espressive quasi quanto la natura abbia dato loro capacità di esprimersi. Quando in Apes Revolution - Il Pianeta delle Scimmie, Maurice ricorda a Cesare quanti progressi abbia fatto la loro comunità, Cesare non si limita a sorridere ma sogghigna esattamente come un adulto che ricorda con stupore quanto sia cresciuto da che era un ragazzo. In quel piccolo gesto, ricreato proprio da Andy Serkis, c’è il nuovo standard dell'effetto visivo come mezzo espressivo a tutto tondo, che grazie al motion capture centra in pieno l’idea stessa di effetto speciale: far dimenticare allo spettatore di essere, per l’appunto, una finzione. Nella mirabolante giostra dei prestigiatori del grande schermo, il miglior effetto speciale è proprio quello che “scompare”, riuscendo a non qualificarsi come tale. Prova ne è che molti spettatori poco esperti, guardando L’Alba del Pianeta delle Scimmie e Apes Revolution, si siano chiesti come la troupe fosse riuscita “a far recitare le scimmie in quel modo”.

Paradossi e virtù del pubblico consapevole

Nel pubblico più informato o più curioso, le creature digitali sono le nuove superstar. Il dibattito sul loro design e sulla loro resa è tanto florido quanto quello sulle interpretazioni delle star in carne e ossa. Aspettative, critiche e dibattimenti si infiammano ancora di più nel caso delle creature fantastiche. Le discussioni sul design di Smaug de Lo Hobbit (con la voce e le movenze di Benedict Cumberbatch) o le diatribe sull’aspetto di Elliott del remake di Elliott il Drago Invisibile avvengono in maniera non molto difforme dai dibattiti sull’ultima interpretazione di Meryl Streep. Gran parte dell’attenzione riservata alle star digitali si deve al fatto che sulle creature fantastiche abbiamo molte aspettative pregresse, figlie del modo in cui abbiamo immaginato l’universo di mostri che ha popolato la nostra testa fin da piccoli. Dove va, in tutto questo, la recitazione? Se scegliamo di vederla “alla Peter Jackson”, con atteggiamento di totale apertura al nuovo che è già vecchio, non c’è da avere paura delle innovazioni. In primo luogo perché l’occhio del pubblico, abituato a standard visivi sempre più alti, ha già iniziato a decretare lo strapotere degli sceneggiatori.  Anche lo spettatore meno spigliato, una volta che ha compreso che può essergli potenzialmente mostrato di tutto,  comincia a pretendere una qualità degli script sempre più alta, figlia anche degli standard qualitativi del rinascimento della serialità televisiva. Dovrebbe diventare uno spettatore più consapevole, alzando di conseguenza il livello delle sfide che i creativi sono chiamati a affrontare per agganciare un pubblico sempre più abituato a esperienze visuali realistiche. Il cinema resta un'arte squisitamente visiva, che vede nell'immagine in movimento la propria definizione, non solo semantica. Chiaramente, il progresso tecnologico apre alle possibilità di raccontare per immagini storie più ambiziose, come nel caso dell'universo corale tolkieniano.

Il paradosso è che, se è vero che l'avanzamento tecnologico dovrebbe favorire anche il progredire dello storytelling, al momento lo si sta utilizzando molto per riportare alla luce opere del passato. Che vediate di buon occhio i remake e i reboot o che li consideriate l’apoteosi della mancanza di coraggio produttivo, i rifacimenti e i rilanci di film del passato sono la ghiotta occasione per testare le tecnologie nuove (ma già vecchie) su prodotti che in passato sono stati all’avanguardia nel loro campo (in primis nell’animazione). Oltre, naturalmente, a lanciare prodotti redditizi e già brandizzati: i live-action dei cartoni e i remake/reboot hanno già al loro interno il potere del brand dei prodotti dai quali sono tratti. Contengono il cosiddetto "avviamento aziendale", ovvero il vantaggio di essere già conosciuti prima di uscire. Non sappiamo se l'era dei reboot sia un grande "beta testing" (a volte con qualche bug) del cinema tech. Ciò che sappiamo è che secondo i numeri, per il momento, il pubblico sembra apprezzare e l’industria risponde di conseguenza. Ma anche la stessa industria è contemporaneamente chiamata a un nuovo assetto distributivo dei suoi prodotti. L’atteggiamento ottimista di Jackson vede opportunità in gran parte delle innovazioni più audaci, sia in corso che future. Il regista di Wellington vede di buon occhio anche il controverso The Screening Room, il servizio in fase di sviluppo da un’idea di Sean Parker, che permetterà a tutti di vedere i film a casa in contemporanea alla loro uscita al cinema. Per Jackson, oltre a essere un passaggio inevitabile, non sarà affatto la morte delle sale cinematografiche ma l’occasione di coinvolgere quella fetta di spettatori potenziali che oggi è del tutto esclusa dai numeri del botteghino. Con la stessa idea e con lo stesso spirito, la capacità di replicare al cinema la realtà in maniera fotorealistica non porterà necessariamente alla sostituzione dell’elemento umano con quello digitale ma a un equilibrato utilizzo di entrambi come mezzi espressivi. In parte sta già accadendo. Prova ne è che le reazioni stizzite del pubblico a una CGI di cattiva qualità sono molto simili alle delusioni per la cattiva interpretazione di un attore. Un uso sciatto della tecnologia è sempre più simile a un attore che recita male: lascia il pubblico con la netta sensazione di un'occasione mancata. Chi parla di "emotion capture", difatti, sottolinea proprio l'opportunità della tecnologia di entrare nel gioco delle emozioni umane. Se è vero che niente potrà mai sostituire il pathos e l'espressività di un attore in carne e ossa, è anche vero che a volte, sul grande schermo, la grande bellezza è proprio nella grande illusione. “Non avete mai avuto il controllo, è ancora tutta un’illusione!” spiegava Ellie a John Hammond dopo il fallimento del Jurassic Park. E a proposito di illusioni, in India Il Libro della Giungla non ha avuto un rating aperto a tutti ed è stato bollato dal Board of Film Certification come potenzialmente spaventoso con la motivazione che “Gli animali sembrano saltare sugli spettatori”. Ian Malcolm ricorderebbe a tutti che “a Disneyland i pirati non si mangiavano i turisti”.

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