C’era una volta in Messico è troppo per il suo bene

C’era una volta in Messico è il film più sovrabbondante ed eccessivo di Robert Rodriguez, al punto da collassare sotto il suo stesso peso

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C’era una volta in Messico è su Netflix

La fretta è cattiva consigliera, e peggiora se il progetto a cui stai lavorando è un omaggio allo spaghetti western e a Sergio Leone in particolare. Non lo diciamo noi, lo dimostra plasticamente C’era una volta in Messico, terzo capitolo della trilogia del Mariachi di Robert Rodriguez e quello che in teoria avrebbe dovuto fare il salto definitivo al franchise, visto che per la prima volta nasceva con un budget superiore alla mancia settimanale che i genitori del piccolo Robert gli davano per comprarsi le figurine. 30 milioni di dollari, tutta l’ambizione del mondo… e una fretta del diavolo di completare il film, visto che c’era nell’aria uno sciopero che poi non si concretizzò (la vicenda è collaterale, ma se volete leggerne qui c’è una ricostruzione).

C’era una volta in Messico fu girato due anni prima della sua stessa uscita in sala, e poco prima delle riprese di Spy Kids 2 e 3; per i quali il film fece quasi da cavia: grazie a George Lucas, Rodriguez aveva appena scoperto le riprese in digitale, e C’era una volta in Messico fu il suo primo esperimento con la tecnologia che avrebbe poi usato per il resto della sua carriera. Il vero problema di C’era una volta in Messico, però, è che fu scritto in fretta e furia: due settimane, nel tentativo di far partire la produzione il prima possibile.

era una volta in Messico Depp Trejo

Considerando che il modello principale di Rodriguez era Il buono, il brutto e il cattivo, capirete che due settimane per concepire una storia complessa, stratificata, che mettesse il protagonista dei primi due film un po’ in secondo piano puntando piuttosto sulla coralità del cast, erano decisamente poche. Non sappiamo dire se Rodriguez stesso lo sapesse, ma un po’ il sospetto ce l’abbiamo: C’era una volta in Messico si presenta come un film “shot, chopped and scored by Robert Rodriguez”, dove la parola chiave è “chopped”: non “edited”, montato, ma direttamente affettato, fatto a pezzi – come se la confusione che regna sovrana per tutto il film fosse una precisa scelta estetica e non il risultato di un lavoro fatto di fretta.

Volontario o meno, è difficile negare che C’era una volta in Messico sia un po’ un pasticcio, e che in particolare alcune delle storyline non si incastrano benissimo con tutta la cornice – ci sono una serie di personaggi (quelli di Mickey Rourke, Rubén Blades, anche Eva Mendes) che gravitano intorno alla vicenda principale sì arricchendola, ma anche complicandola inutilmente e appesantendo la narrazione. Che già di per sé è appesantita da una clamorosa mancanza di ritmo: Rodriguez ci tempesta di flashback utili solo a ribadire gli stessi due concetti (in particolare il fatto che Salma Hayek è morta, ammazzata dal cattivo di turno), e ogni tanto tira il freno a mano per lasciare a Johnny Depp il tempo di rispiegare da capo la situazione per la terza, quarta o quinta volta nel giro di mezz’ora. Situazione che peraltro è più lineare di quello che il film vuole far credere: è una storia di bersagli in movimento, di un gigantesco stallo messicano (guarda un po’) che coinvolge un pistolero chitarrista, un signore della droga e il suo generale di fiducia, e varie forze dell’ordine tra cui l’agente della CIA di Depp.

Mood

Proprio lui ci permette però di cominciare a parlare bene di C’era una volta in Messico, che ha problemi di scrittura e di andamento, ma che è anche una continua esplosione di creatività ogni volta che introduce un nuovo personaggio. È vero, l’abbiamo detto, sono troppi e qualcuno poteva essere tagliato per maggiore chiarezza; ma il punto è che è difficile decidere a chi dovrebbe toccare questo destino. Depp, in pieno periodo Jack Sparrow, mette da parte le faccette e l’overacting per regalarci un agente genuinamente crudele e corrotto, e con la personalità di ghiaccio del sociopatico funzionale. Rourke, il più fuori posto del lotto, è comunque adorabile nei panni del killer prezzolato che ha sbagliato lavoro.

E poi: c’è Eva Mendes che si fa conoscere definitivamente al mondo in tutto il suo carisma strabordante. Danny Trejo fa Danny Trejo, e questo da solo è garanzia di qualità. Willem Dafoe non sbaglierebbe un personaggio nemmeno se glielo richiedesse la sceneggiatura. Avete notato come finora non abbiamo neanche nominato Antonio Banderas? È perché non ce n’è alcun bisogno, tanto è perfetto per la parte. Momento su momento, C’era una volta in Messico è sicuramente la cosa migliore prodotta da Rodriguez fino ad allora, e ancora oggi una delle migliori. Il quadro generale traballa, ma quando si tratta di far volare proiettili e di coreografare sequenze d’azione a metà tra Tarantino e la parodia slapstick il regista di Planet Terror è sempre un mago, e il fatto che alla sua prima esperienza con il digitale Rodriguez riesca a evitare la trappola del tutto finto e quasi a ingannarci sul fatto che stiamo guardando un film girato su pellicola è segno di talento sconfinato.

Banderas

Forse il problema è proprio quella parola, “sconfinato”. A Rodriguez non piace avere limiti, eppure quando c’è una figura esterna che glieli impone e lo costringe a limare, ragionare, riscrivere, espandere, tagliare i film gli escono meglio – più organici, più rotondi. C’era una volta in Messico è l’esempio supremo di quello che succede quando Robert Rodriguez fa letteralmente tutto da solo, e lo fa di corsa perché ha fretta: sprazzi di grandissimo cinema, che nuotano in un minestrone saporito ma fin troppo ricco e sovrabbondante.

Anche se in effetti la metafora culinaria non è la più adatta: se avete visto il film sapete che è un altro il piatto centrale di C’era una volta in Messico. Nell’edizione home video del film trovate anche un video di Robert Rodriguez che vi spiega come cucinare il puerco pibil seguendo la sua ricetta preferita; purtroppo nessuna anima pia si è presa la briga di caricarlo su YouTube, per cui il massimo che riusciamo a fare è questo:

Può sembrare una sciocchezza, ma è in realtà il segnale che C’era una volta in Messico ha avuto un successo che va ben oltre le noiose considerazioni critiche sulla sceneggiatura e il montaggio. Il film incassò quasi 100 milioni a fronte di un budget di 30, ma soprattutto negli anni si è costruito un seguito affezionatissimo e che lo ama anche al di là dei suoi difetti. In altre parole è un cult: magari imperfetto, ma che ha trasceso i suoi limiti per diventare parte dell’immaginario collettivo.

Che per un film scritto in due settimane non è affatto male.

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