Cena con delitto – Knives Out piace ma parla troppo

Cena con delitto – Knives Out è un delizioso giallo alla Agatha Christie con una sorprendente vena politica e il vizio di non stare mai zitto

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Cena con delitto – Knives Out è su Netflix

«Guardati intorno: il tizio praticamente viveva su un tabellone del Cluedo!». Cena con delitto – Knives Out non ci mette molto a dichiarare le proprie intenzioni: quelle cioè di essere un film “come non se ne fanno più”, un giallo classico (nell’accezione agathachristie del termine, non in quella darioargento) con un omicidio misterioso, un gruppo di personaggi tutti potenzialmente colpevoli in un modo o nell’altro e un detective sopra le righe che deve risolvere la situazione. E il fatto che lo affermi in maniera così sfacciata, citando un gioco da tavolo che è anche l’ispirazione per uno degli ultimi veri grandi classici del genere, è la mossa più furba di tutta l’opera di Rian Johnson, che sembra voler agire nel rispetto delle regole e invece si sposta in maniera quasi impercettibile prima verso la parodia, poi verso la commedia nera, infine direttamente nella politica – tutto senza mai sgarrare dalle regole che già guidavano i vari Poirot o Miss Marple. Peccato solo per quel piccolo vizio di non tenere mai la bocca chiusa…

La battuta con cui abbiamo aperto il pezzo non è solo una simpatica citazione, una delle migliaia delle quali Cena con delitto è disseminato. È anche una frase molto vera e fondamentale per tutta l’architettura del film: la casa del vecchio patriarca Harlan Trombey (Christopher Plummer) ci viene mostrata nei minimi dettagli nel corso del film, e molte scene servono, oltre che per avanzare la trama, anche per facilitare la nostra comprensione della geografia del luogo. Capire perché questo o quel personaggio avrebbe o non avrebbe potuto fare questa o quest’altra cosa in base a dove si trovava in casa è fondamentale per tenere alto il coinvolgimento di chi guarda: un buon giallo funziona anche perché, finché non si arriva alla conclusione, seguirlo è un gioco, una sfida dello spettatore all’autore, una gara a chi arriva per primo alla rivelazione.

L’attenzione maniacale alla geografia di casa Trombey è uno dei tanti elementi che Johnson riprende dai già citati “cari vecchi gialli di una volta”, e la dimostrazione che per scrivere Cena con delitto ha studiato. Molti altri elementi sono lì perché è giusto che ci siano in un film del genere: la famiglia allargata Trombey è composta da tutte le maschere che ci si aspetta da un clan di ricconi (da Jamie Lee Curtis che fa la figlia maggiore gelida e distaccata che gestisce la sua fortuna con piglio imprenditoriale e senza sentimenti fino al nipote sbalestrato, interpretato da un ottimo Chris Evans che rimane pazientemente nelle retrovie finché non arriva il suo momento), il personaggio apparentemente più alla periferia della vicenda si ritrova al suo centro, il delitto all’apparenza non è un delitto ma un suicidio e ci vuole l’intuito del detective privato per capire quello che le forze dell’ordine si erano fatte sfuggire…

E non c’è dubbio che Benoit Blanc, il detective un po’ Sherlock Holmes e un po’ Poirot interpretato da un Daniel Craig in versione Nicolas Cage, sia il più classico degli elementi classici di Cena con delitto. Blanc è un personaggio inventato da Rian Johnson ma che potrebbe uscire da un giallo degli anni Quaranta: genio, fascinoso, tenebroso ma educato, sarcastico ma tenero di cuore con gli innocenti, e soprattutto con la fondamentale aria di quello che è sempre tre passi avanti, e passa la maggior parte del suo tempo nell’attesa che il resto del mondo si rimetta in pari.

Craig prende molto sul serio il ruolo che gli viene affidato, ed esagera ogni singola parola, ogni singola pausa e ogni singolo gesto del suo personaggio ben oltre i confini dell’overacting. È probabilmente l’elemento più stridente dell’opera, e in un film popolato da maschere carnevalesche ai confini della parodia è un’impresa non da poco. Che si apprezzi o no la scelta attoriale di Craig, la sua presenza resta comunque fondamentale per dare a Cena con delitto i tratti di una detective story fino all’ultimo istante possibile; perché mentre lui investiga, pondera, ipotizza e si interroga, intorno a lui il film comincia a prendere direzioni inaspettate.

Il cuore di tutta la vicenda, rimanendo il più lontano possibile dagli spoiler pesanti, è che, nel corso delle indagini, la badante del vecchio Trombey finisce in possesso della sua intera eredità, lasciando la famiglia senza il proverbiale becco di un quattrino. E questo semplice avvenimento cambia il volto di Cena con delitto e lo trasforma in una commedia nera, quasi coeniana, nella quale la facciata perfetta della famiglia Trombey viene demolita a martellate da Johnson, che dopo averli smontati guarda le macerie con un sorriso divertito, e nel quale la classe operaia si prende finalmente la sua rivincita contro i padroni.

Peccato solo che, per essere un film così intricato e nel quale bisogna tenere traccia di parecchi elementi contemporaneamente, a Cena con delitto manchi un po’ di fiducia nel suo pubblico. Quella che sarebbe potuta essere un’agile storia da risolvere in 90 minuti sfiora invece le due ore perché la sceneggiatura ripete almeno un paio di volte ogni singolo plot point, nel terrore che ci sia sfuggito qualcosa e il successivo colpo di scena non sia abbastanza chiaro. Certo, la tendenza a sovra-spiegare tutto era tipica anche di certi gialli dell’epoca, ma in Cena con delitto sembra più che altro una scusa per dare a Daniel Craig un altro paio di minuti di monologo. Se possiamo permetterci un consiglio a Rian Johnson per il suo imminente sequel (che è già stato scritto e girato, ma sono dettagli) è di seguire le parole di un grande profeta dei nostri tempi:

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