C’è un po’ di Inside Out in molti altri film della Pixar

C'è tanto Inside Out nei film della Pixar sin dalla sua origine. Non ha inventato nulla di nuovo, ma ha rifinito un discorso cinematografico

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Capire Inside Out è molto semplice, quasi banale. L’idea è quella di raccontare due storie contemporaneamente: una sono i fatti, l’altra le emozioni. Una è quello che succede a Riley, la bambina protagonista che si trova ad affrontare situazioni piuttosto ordinarie. L’altra è cosa succede dentro Riley, le emozioni che vive in maniera individuale, personalizzata e originale. Queste sono rappresentate sotto forma di personaggi senzienti e completi (a loro volta provano emozioni). Il corpo della bambina, come un grande cantiere, cambia, viene ristrutturato, perde le cose nei suoi meandri. Il compito delle emozioni è tenere tutto questo insieme, provare a dare coerenza a quello che succede attraverso la consolle con cui guidano Riley. 

Le emozioni base, Gioia, Disgusto, Paura, Rabbia, Tristezza, sia nel primo che nel secondo film affrontano il classico viaggio dell’eroe. Nel seguito sono affiancate da altre emozioni più complesse, quelle della pubertà. Sono Ansia, Invidia, Noia e Imbarazzo. La sostanza però non cambia: c’è una causa scatenante che sconvolge lo status quo. Alcune emozioni devono partire in missione per trovare un modo di ristabilire la condizione di partenza. Ci sono soglie, aiutanti e falsi antagonisti (ciò che sembra negativo si rivela essere parte naturale della vita).

È così che lavora la Pixar: prende dei personaggi cartooneschi, li rende espressivi (chi è tondo è generalmente pacifico, chi è spigoloso è violento e ostile e così via), e fa in modo che questi rappresentino qualcosa di più grande del loro semplice essere personaggi. In altre parole: il percorso di tristezza in Inside Out, corrisponde alla riflessione stessa del valore della tristezza nel regolare i momenti della vita. L’ansia che si paralizza in Inside Out 2 è l’immagine semplice, eppure geniale, dell’attacco d’ansia. Quando la testa va a mille, le scelte sono infinite e il corpo si blocca in uno stato di continua vertigine. Si potrebbe tracciare la stessa linea con tutte emozioni. Sta qui la grande originalità di entrambi i film. Eppure la Pixar ha sempre fatto tutto questo, solo un po’ di meno. 

Dall’interno all’esterno… inside out

È come se lungo la sua filmografia la Pixar avesse girato spesso intorno a questo concetto per rifinirlo: portare all’esterno ciò che è interno. Rendere cioè visibili, sotto forma di personaggi, concetti complicati da spiegare a parole. Inside Out inizia con Toy Story, il primo film dello studio, dove i giocattoli che si animano solo quando non visti dagli umani sono il simbolo stesso dell’animazione (dare anima, dare vita a ciò che non la possiede) e del mondo interiore di Andy. 

Il bambino che possiede tutti quei giocattoli è un personaggio marginale rispetto a Woody e Buzz, come Riley lo è rispetto alle sue emozioni. C’è, è presente nel film, ma sembra sempre in secondo piano. Andy e Riley sono subordinati rispetto all’avventura principale. Eppure noi spettatori capiamo tantissimo di loro. Basta vedere il nome di Andy sotto lo stivale di Woody, o vedere la sua mano scegliere con chi giocare frugando nello scatolone, per coglie le sfumature emotive e psicologiche del bambino. Il cinema lo cambia, vede il film su Buzz Lightyear e se ne innamora, compra l'action figure del protagonista e si identifica con lui.

Dietro a ogni giocattolo c’è una storia, proprio come c’è dietro a ogni emozione di Riley. Chi li avrà consegnati ad Andy? Come sarà nata la passione per il western? Sappiamo che Woody è un antico giocattolo di famiglia. Così la sua sola presenza nella stanza del bambino può suggerire tanto del rapporto con il padre, dei ricordi costruiti con lo sceriffo di pezza. 

Il corpo come una fabbrica

Da una parte la Pixar ha continuato ad affidare ai suoi personaggi piccoli pezzi dell’animo umano, dall’altra ha affinato la precisione dei suoi mondi. La città di Mostropoli di Monsters & Co. non è tanto distante da un regno interiore che potrebbe appartenere ad Inside Out. Qui però l’emozione al centro di tutto è una sola: la paura. Anche essa fa il giro proprio come tristezza (e in parte ansia): la paura è a due vie con i mostri terrorizzati dai bambini che devono spaventare. Si annulla nella consapevolezza che tutti provano qualche forma di paura. La paura è anche fantasia, è una relazione ed è una cosa brutta che si può redimere. I mostri riconvertono la centrale di urla in una di risate, molto più potenti nella creazione di energia. 

Pete Docter ha fatto questo in Monsters & Co, in Inside Out e, nel 2020, in Soul. Nel suo film più recente le cose funzionano allo stesso modo: l’ “out" è quello di Joe Gardner, un insegnante di musica con pochi sogni, ma ben precisi: vuole affermarsi come musicista Jazz. L’ “inside” è l’Antemondo. Uno spazio ben organizzato (figurarsi!), in cui le anime dei nascituri si allenano alla vita.

Docter in Soul parla di una cosa che non si può descrivere solo con emozioni personificate. Perché è un aspetto dell'esistenza talmente profondo, talmente integrato nell’anima, che descrive la totalità stessa della persona. È la passione. 

Così c’è una “scintilla” sola per un’anima. E quest’anima, una volta in vita, proverà emozioni che alimenteranno la sua chiamata all’esistenza. Idee difficilissime da sintetizzare a parole, diventano immediate sotto forma di immagine. 

Il bisogno e la bellezza di cambiare  

La pubertà di Inside Out 2 lascia da parte l’aspetto più fisico dei cambiamenti di Riley (a parte qualche brufolo qua e là) e affettivo (a parte il cambio di relazione con amiche). Perché del corpo che cambia e della scoperta della propria sessualità già ne ha parlato il sottovalutato Red. Le emozioni qui hanno una manifestazione visibile nella trasformazione della protagonista in un panda rosso. Dentro e fuori corrispondono.

Mei Lee si spaventa, sente di non avere il controllo di sé. I suoi genitori sono molto simili a quelli di Riley: sanno cosa le sta succedendo. Ci sono già passati anche loro. Possono guidarla, ma a volte ne sono impauriti a loro volta e non sanno cosa fare.

Quello che dice la Pixar in questi suoi progetti che sembrano parte di un unico grande discorso è sostanzialmente che siamo esseri complessi. Che i bambini sono persone con un mondo interiore fenomenale, dotati di fantasia e di una sensibilità alta verso tutto ciò che è nuovo. Dentro e fuori di loro. Dando però un nome alle cose che vivono, trovandogli anche un volto e una forma, si possono controllare, unire per creare qualcosa di meraviglioso. Una nuova forza, una personalità, un’identità. 

Questo passaggio finale è dentro Elemental. Il film che più assomiglia a Inside Outperché non descrive le emozioni, ma i temperamenti. Il fuoco è impulsività, rabbia, energia. Il vento è un umore che cambia spesso, che minaccia, ma non fa mai veramente male. Le piante sono le persone solide, ma anche fragili. L’acqua è al centro di Element City, è vita e insieme capacità di adattamento. Wade, a forma di goccia, ama piangere (altro paradosso Pixar). Piange di gioia, si commuove, è sensibile, tranne quando gli si spezza il cuore, lì diventa risoluto. Ember, la ragazza di fuoco, segue la sua passione. Si rende conto che quei grandi palazzi di vetro non li hanno plasmati solo gli acquatici, ma tutti gli elementi insieme. Tutti servono, tutti hanno un ruolo.

Anche alla fine di Inside Out 2 nel corpo di Riley hanno trovato casa nuove emozioni, quelle dell’età adulta, più caotiche, meno nette e universalmente meno amate. Chissà che questo cambiamento non stia avvenendo anche in uno studio sempre più interessato alla sfida di dare forma e nome all’indescrivibile.

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