Catwoman è inaccettabile, ma è anche storia
Catwoman è un film tremendo, ma è anche uscito da abbastanza tempo da avere un certo innegabile valore storiografico
Catwoman è su Prime Video
Insomma erano tempi incerti, e ogni nuovo cinecomic doveva più o meno inventarsi da zero, sperimentare con nuove formule nella speranza di beccare quella giusta e cominciare a far ingranare il genere. Catwoman in questo senso aveva anche intuizioni interessanti, forse persino troppo avanti per la sua epoca. Era un film di supereroi tutto al femminile (protagonista ma anche villain), basato su una storia scritta da una donna, e che esplorava anche, in un certo qual modo, di tematiche femminili, anche se non per forza femministe: parlava della paura di invecchiare e della pressione sociale di essere sempre al proprio top estetico per via di quel vecchio pregiudizio secondo il quale i maschi che invecchiano acquistano fascino mentre le femmine lo perdono.
Parlava anche di una donna debole e sola che trovava in sé stessa (e in un gattino magico) la forza per reinventarsi ed esprimere quel lato di sé che la timidezza e le convenzioni sociali la obbligavano a tenere sopito. Parlava di ruoli, di generi, di aspettative sociali, e tutto da un punto di vista squisitamente femminile, almeno su carta. Oggi un film presentato con questi presupposti finirebbe sotto la lente della critica dal giorno 1 e attirerebbe complimenti ma anche accuse di essere piegato allo spirito woke del tempo e tutto il fastidioso bla bla che ormai associamo a certi temi. Nel 2004 tutto questo aspetto di Catwoman passò sostanzialmente inosservato – e secondo noi è in gran parte colpa di Pitof.
Jean-Christophe Comar detto Pitof non è il regista più prolifico della storia e non ha la carriera più scintillante che si possa desiderare. Ha diretto solo due film: Vidocq, un thriller-fantasy che floppò clamorosamente al botteghino ma che gli regalò comunque qualche minuto di fama, e Catwoman appunto, cioè l’occasione offertagli da quella parte di Hollywood che era rimasta favorevolmente colpita dal suo esordio. Di Vidocq magari parleremo in futuro, ma riguardando Catwoman non è difficile capire come mai dopo quel film Pitof ne abbia diretto solo un altro, l’improponibile fantasy per la TV Fire and Ice.
È chiaro che l’idea di Pitof è l’opposto polare di quelle intenzioni tematiche di cui parlavamo prima. Il regista francese ha a disposizione una delle donne più belle del mondo e la possibilità di trasformarla da timida ragazza indifesa a gattona supersexy vestita di pelle e armata di frusta. In teoria la trasformazione di Patience Phillips in Catwoman dovrebbe essere un momento di empowerment, l’uscita dal guscio nella quale la ragazza era stata costretta fino a quel momento. In pratica, Pitof decide che la cosa migliore da fare con la sua protagonista è sfruttare ogni occasione per farci vedere quanto abbia un bel culo e quanto generosa sia la sua scollatura.
Vedetela così: se cercate sul dizionario la definizione di “sguardo maschile” ci troverete una gallery di foto tratta da Catwoman. Pitof sacrifica ogni cosa, persino la chiarezza visiva o il montaggio sensato, sull’altare della celebrazione estetica del corpo di Halle Berry e della sua capacità di fare faccette sexy. Più di ogni altra cosa, Catwoman è girato in modo distraente: tutti quei momenti nei quali la protagonista dovrebbe mostrare tutta la sua potenza diventano brevi introduzioni di film porno mai girati, nelle quali la superladra si agita sinuosa e provocante anche quando non ce n’è un vero motivo.
Non stiamo dicendo che Catwoman come personaggio andasse desessualizzata: sarebbe stato assurdo. Ci sono però tanti modi diversi per far passare la stessa idea, e quello scelto da Pitof è quello di un maschio che vuole godersi il più possibile il fondoschiena inguainato in pelle della sua protagonista – e a quel paese tutto il resto. C’è una scollatura gigantesca tra le (comunque vaghe) intenzioni di scrittura e la messa in scena di queste idee, e nessuna scena lo dimostra meglio di questa:
Non stiamo neanche dicendo che i problemi di Catwoman si fermino agli squilibri ormonali del suo regista, ovviamente. Per lunghi tratti, soprattutto nei primi due atti, il film sembra uscito dallo stesso stampino difettoso che qualche anno fa ci ha regalato Venom: è una commedia romantica sulla quale vengono innestati a forza dei superpoteri (ci sono persino due scene molto simili che hanno a che fare con dei vicini rumorosi), che per di più nel caso del film di Pitof si manifestano sotto forma di gattini soprannaturali e di una gattara altrettanto magica. È tutto molto difficile da prendere sul serio, anche perché parliamo di un film nel quale nessuno dei personaggi ha una vera personalità: fanno quello che richiede loro la trama, anche se è in contrasto con quanto ci è stato spiegato cinque minuti prima (il caso più clamoroso è la scelta di dipingerci Patience come una tizia prudente, timida, passiva e ordinaria e, cinque minuti dopo, farla salire su un cornicione sospesa nel vuoto perché sta provando a salvare un gattino).
Non aiuta neanche il fatto che la villain di turno sia… come dirlo senza ridere? Una tizia che è diventata invulnerabile grazie alle sue creme di bellezza. Non ha alcuna dote particolare, nessuna abilità o potere speciale: ha solo la pelle molto dura grazie ai cosmetici. Questo sgonfia qualsiasi tensione in partenza, depotenzia tutto il lato supereroistico di questa storia supereroistica: non è un caso se l’azione vera arriva solo nell’ultima mezz’ora di film, ed è in larga misura dimenticabile. A Pitof interessava altro: gli interessava avere per le mani Halle Berry poco vestita e la possibilità di accarezzarla da ogni angolazione per un’ora e quaranta, nella speranza che la sua bellezza ci distraesse dall’incompetenza generalizzata. Non ci siamo cascati allora, figuratevi oggi.