Cape Fear e l'arte di arrivare subito al punto

I primi minuti di Cape Fear sono un capolavoro di sintesi e tensione che ci fanno sentire come se fossimo saliti su un tapis roulant in corsa

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Trent'anni fa arrivava in sala Cape Fear.

Una sceneggiatura passata sotto la mano di Steven Spielberg, che l’ha però rifiutata considerandola troppo violenta per le sue corde. Arrivò così a Martin Scorsese che non la gradiva: tutti erano troppo perfetti e lui non voleva fare un film patinato e accomodante, rigidamente diviso tra buoni e cattivi. Era pronto a passare il turno, ma la Universal gli fece però pressioni per onorare gli obblighi contrattuali di un secondo film dopo L'ultima tentazione di Cristo. Accettò, riscrivendo però gran parte delle psicologie e delle backstory. Ne uscì un film alla Hitchcock del periodo statunitense, per quanto riguarda la grammatica delle immagini, per lo meno. 

Il resto, nonostante la critica dell’epoca l'abbia bollato come un esperimento poco personale, è puro Martin Scorsese. In particolare lo si ritrova nella figura di Sam Bowden, più sfumata e combattuta rispetto alla versione del 1962 di J. Lee Thompson. Ma quello che conta veramente è il Max Cady di Robert De Niro, criminale entrato in prigione pressoché analfabeta, rilasciato quattordici anni dopo con un’istruzione completa. Grazie ai suoi studi ha capito di avere subito un’ingiustizia ai tempi del processo, perpetrata proprio da Bowden, il suo avvocato d’ufficio. Appena ottenuta la libertà ritorna nel suo paese, determinato a vendicarsi del torto subito.

Come film di tensione Cape Fear funziona alla grande, grazie soprattutto alla cura nella scrittura nella sua prima parte. Se infatti nel finale si allunga in un inverosimile show-down, reso oggi inguardabile grazie alla geniale parodia dei Simpson nell’episodio 2 della stagione 5, i primi minuti vanno studiati da chiunque ami il cinema. Scorsese lavora per portarci subito al dunque. I personaggi ci verranno raccontati durante l’azione, non prima, ma nel mentre. Non è un inizio in medias res, siamo in uno stato di quiete, ma questa viene smossa così velocemente che ci sentiamo come se fossimo appena saliti su un tapis roulant già in movimento.

Cape Fear è come il capitolo due di una storia che non abbiamo visto, tratta il villain come se già conoscessimo quello di cui è capace, lo inquadra con un occhio timoroso. Per questo i suoi primi dieci minuti sono un capolavoro di sintesi e di ansia.

La prima nota che ascoltiamo è un suono acuto e spaventoso. Solo quello dice tantissimo dell’atmosfera in cui ci si sta per immergere. La colonna sonora è composta da Bernard Herrmann che aveva scritto le partiture anche del film originale del 1962. Non è solo la presenza dello storico collaboratore di Alfred Hitchcock a richiamare Psyco, ma anche il design dei titoli di testa. All’opera c’è infatti Saul Bass, che non si trattiene dall’auto citarsi. La struttura spezzata del font di Cape Fear è lo stesso espediente visivo usato per raccontare la scissione della personalità di Norman Bates. Le linee orizzontali dell’acqua sono più morbide rispetto a quelle pungenti di Psyco, ma il riferimento è innegabile.

I titoli di testa terminano con due occhi in negativo con un viraggio rosso del colore. Capiremo solo alla fine cosa simboleggiano. E saranno proprio loro a dare un risvolto amaro alla conclusione.

L’attacco successivo è rapidissimo, ma essenziale per capire la direzione che prenderà il film. Gli occhi appartengono a Danielle Bowden (Juliette Lewis) la figlia quasi sedicenne dell’avvocato, che racconta dei fatti avvenuti a Cape Fear. Meno di un minuto e Scorsese stacca su Max Cady. In quel breve incipit mette però sul tavolo già diverse carte. La più importante è che Danielle è la narratrice del film. Spiega della notte in cui la magia è finita e la realtà è entrata nella sua vita. Ce ne dimenticheremo poco dopo, ma il breve monologo ritornerà alla mente nel magistrale momento in cui l’assassinio sedurrà la ragazza. Un lupo cattivo con la sua Cappuccetto Rosso, pronta a sbocciare nell’ adolescenza. E quindi un occhio non solo spaventato, ma anche desideroso di conoscere la carne.

È il momento di introdurre Cady. Non servono molte parole. Vediamo un muro addobbato con immagini di santi e condottieri. Carrello indietro. Scopriamo libri accumulati vicino a dei ritagli di fumetti. Nietzsche, la Bibbia, gli Inumani. “Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”, e da quello che vediamo l’uomo è una persona che ha imparato a leggere tutto insieme, un bambino con la mente di filosofo. Ha attraversato diversi testi, anche molto differenti tra di loro, in un tempo rapidissimo.

La cinepresa continua ad arretrare e arriva un ostacolo visivo: la schiena del detenuto che si sta allenando. Un enorme tatuaggio si sovrappone alla più conciliante pila di libri: una croce con appesi due piatti della bilancia: verità e giustizia. Il suo corpo, come si dirà più avanti, è come un libro della sua personalità e dei suoi propositi. Non serve esplicitarli, li capiamo non appena la cinepresa termina il suo viaggio a ritroso rivelando le sbarre della prigione.

Ora guardiamo l’uomo in faccia, mentre viene rilasciato e cammina verso di noi. Si avvicina senza fermarsi passando da un campo lungo a un primo piano del volto. Quasi a impere la quarta parete. Titoli di testa a parte, sono passati solo due minuti e il film ha raccontato tantissimo!

Li lasci qui i libri?” “Li ho già letti”. 

Cape Fear

Scena successiva. Un folle si aggira in una camera di bambini distrutta, guarda nella porta squarciata come Jack Nicholson in Shining, e distrugge tutto. È una pellicola proiettata su uno schermo, e siamo nella mente di Max Cady seduto tra il pubblico. Sta vedendo Piccola Peste, film della Universal uscito un anno prima. Un bel contrasto rispetto a quello che accadrà di lì a poco. Eppure funziona. Già di per sé la scena, presa da sola fuori contesto, è piuttosto inquietante. Quando sentiamo le risate isteriche del maniaco, nasce subito il sospetto che i bambini siano una delle sue prede preferite.

Dietro di lui è seduto l’avvocato Bowden con la moglie e la figlia. Sarà l’inizio di una serie infinita di (anche abbastanza improbabili) incontri. Siamo in una città piccola, come diranno più avanti, per questo è difficile sfuggirsi. La famiglia, infastidita dalle risate e dal fumo si allontana cambiando posto. Altro stacco velocissimo, il film è finito e i tre si rilassano prendendo un gelato. Commentano la scena vissuta in sala, condannando l’atteggiamento poco rispettoso dello spettatore che, per loro, è ancora uno qualsiasi. La figlia provoca il papà dicendogli che avrebbe dovuto usare la forza per farlo tacere. Quanto sembra improbabile la cosa, vedendo gustare il dolce in mezzo alla folla. In questo piccolo scambio c’è tutto l’arco del personaggio di Sam: prima timido e impacciato, poi così disperato da diventare capace di commissionare un pestaggio punitivo.

Non ci sono santi nel mondo di Scorsese, e il bilanciamento tra verità e giustizia, tra le leggi personali e quelle imposte, si riconfigura continuamente. Per tutta la prima metà infatti Max Cady agisce nel rispetto della legge. La pressione che riesce a mettere, pur restando dentro i confini del lecito, fa uscire la sua vittima allo scoperto e la trascina in una spirale di crimini per autodifesa.

Attraverso il montaggio Scorsese racconta poi la verità del carattere. Ad esempio: il papà e la mamma si dicono tranquilli e rilassati di fronte alla figlia, il maniaco non li tormenterà più, promettono. Appena suona il telefono saltano, tesissimi, con un grido. Rivelando i loro veri pensieri. Oppure, mentre sono chiusi in casa e l’avvocato va a controllare un rumore sentito in cortile, dice ci non avere paura, ma l’inquadratura stretta sulla pistola che l’uomo prende con rapidità ci fa intuire il suo vero stato emotivo. 

Allo stesso modo, lo stacco dal cinema alla gelateria racconta proprio questa falsità: di una famiglia convinta di sapersi difendere da sola, ma in realtà in balia degli eventi orchestrati dal persecutore. È lui che offre il gelato a tutti, ma quando la commessa lo indica è già lontano sulla sua macchina. Sempre un passo in avanti, anticipa ogni mossa, e fa camminare gli altri sul sentiero da lui tracciato.

Siamo attorno agli 8 minuti, compresa la lunga sequenza dei titoli di testa. Cape Fear ha già fatto quello che la maggior parte dei film non riesce a fare nella prima mezz’ora. Arriva subito al punto, entra già nel meccanismo di tensione e suspense. Inizia così il lungo inseguimento di un villain che già conosciamo bene, grazie alla sua pelle, alla parete che l’ha richiuso e ai suoi gesti. Non servono parole per avere i nervi a pezzi. 

Scorsese lavora così sul subliminale, con i non detti e con le menzogne. Svelarle, a intuire ciò che passa veramente nella mente, significa capire cosa sta succedendo realmente nella storia. E quel finale che ritorna sugli occhi di Danielle, l’unica che sembra esplicitare tutte le sue ambiguità e le sue pulsioni, appare molto meno consolatorio di quanto è in apparenza. Max può essere lontano, ma la sua violenza psicologica è rimasta. 

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