Cannibal Holocaust è il film più censurato di sempre perché rende più sottili i confini tra realtà e finzione
Cannibal Holocaust ha inventato un nuovo linguaggio della realtà ed è una visione importante per chi vuole affrontarne le contraddizioni
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I molti guai di Cannibal Holocaust
Prima di girare Cannibal Holocaust Deodato fece firmare a parte del cast un contratto che gli impediva di apparire nei media per un anno dall’uscita del film. Voleva preservare il mistero della loro scomparsa in scena. Dovette ritrattare la cosa, per salvarsi dall'accusa di omicidio. Il film era infatti così realistico che i membri del cast furono chiamati a presentarsi in tribunale per dimostrare la loro incolumità e testimoniare che tutto quello che gli è accaduto sul set è stato simulato!
Amatissimo dai cultori dell’horror estremo è in realtà solo un film radicale sull'orrore. La componente di paura e spavento è totalmente assente. Mentre il resto del cinema faceva splatter, Ruggero Deodato partiva dai mondo film (il genere di documentari piccanti e sconvolgenti sugli angoli meno raccontati del globo) e li imitava per superarli. Nella prima parte si assiste infatti alla creazione di uno di questi: un professore va alla ricerca in Amazzonia di una troupe scomparsa tempo prima per documentare la vita delle popolazioni tribali. Nella seconda entra in scena la realtà. Catturata nella pellicola sporca, ritrovata, piena di terra e graffi, infine restaurata.
Il primo found footage
Sono i filmati ripresi dalla prima troupe, proiettati negli studi televisivi nella seconda metà del film, a contenere le atrocità più impressionanti. Con una mossa molto retorica eppure anche efficace, il film ribalta la prospettiva sui cannibali. Gli occidentali delle grandi città che tendono verso l’alto con costruzioni imponenti si mostrano più selvaggi delle civiltà non sviluppate nei villaggi nascosti nella foresta. “Mi domando chi siano i veri cannibali” chiosa il professor Harold Monroe con una non necessaria sottolineatura sul finale. Loro sono primitivi allo stato di natura, noi ancora peggio.
La novità non sta nell'accusa, ma come lo fa. Deodato era disgustato dalle immagini che vedeva in televisione italiana. Terrorismo politico, omicidi, una ricerca spasmodica delle immagini scabrose da proiettare nei notiziari per fare audience. Intuisce così qual è la nuova forma visiva del plausibile, che tuttora sono il codice visivo con cui interpretiamo le immagini. Cambia il formato, dal 35 mm del film di finzione al 16 mm, rovinato, graffiato dal regista stesso, perché portasse i segni tangibili della violenza. La bassa definizione sostituisce l’alta qualità nel raccontare il vero. L’estetica da notiziario, la camera a mano, il montaggio provvisorio di sequenze talvolta senza audio o fuori fuoco sono il nuovo codice linguistico del film.
Nessuno prima di Cannibal Holocaust aveva utilizzato il concetto del found footage in maniera così efficace. Bene o male l’impostazione sarà sempre quella negli anni a venire. Nel 1999 The Blair Witch Project basò il suo successo sulla stessa struttura del film di Ruggero Deodato e su una ancora più accentuata attenzione al marketing e sulla percezione del pubblico. Dentro e fuori dal film sono due estremi comunicanti che concorrono a consolidare l'aura leggendaria dei film.
L’ipocrisia dell’exploitation
Cannibal Holocaust si scaglia contro l’imperialismo moderno fatto di sesso e violenza, spesso associati nell’eccitazione che segue gli atti criminali di sterminio. Si rifà alle più terribili immagini di guerra e cerca addirittura di superarle in brutalità. Eppure, nella brutalità del racconto, non c’è la perversione che, da anni, gli viene attribuita. Cannibal Holocaust non esalta infatti la violenza, non la estetizza mai. Negli horror contemporanei d’autore spesso il gesto di dare la morte, i fiumi di sangue e lo squarcio delle carni sono paradossalmente belli da vedere. Hanno inquadrature ben composte e illuminate, hanno montaggi ricchi di idee, spesso si esprimono con inquadrature fisse, ricercate, spettacolari.
Ruggero Deodato invece è attratto dalla violenza allo stesso modo in cui ne è disgustato. Così il suo film fa di tutto per essere disgustoso, e quindi allontanare lo sguardo. Si dice che gli adolescenti inglesi noleggiassero questi e altri “video nasties” per sfidarsi a guardare più a lungo possibile senza abbassare lo sguardo. È proprio questo il punto: le violenze perpetrate ai danni degli indigeni (finite, seppur condotte sul set senza le giuste attenzioni al benessere degli attori) e quelle agli animali (vere), fanno sentire sporchi, in un luogo proibito e selvaggio da cui si vuole scappare.
Il compiacimento con cui viene filmato è quello che vivono i personaggi, quindi interno al racconto. È quello dei prodotti dell’exploitation, che sfruttano i contenuti estremi per attirare il pubblico morboso e lucrare. Deodato accusa questo sguardo: quello pornografico delle dirette televisive, quello che per guadagnarsi gli occhi del pubblico ad ogni costo rapisce l'attenzione e la violenta.
Il problema, e l’esplicita e consapevole ipocrisia del film che per criticare l’exploitation la porta all’estremo come nessuno aveva mai fatto. Nonostante le multe e le censure fu proprio lo scandalo a garantire al film gambe lunghe nei circuiti home video. Si giovò come nessun altro aveva fatto prima d’ora dello stesso meccanismo promozionale che criticava. Ma è proprio questa contraddizione interna a rendere immortale il dibattito sulla visione e sul ruolo dei media nell’influenzare i costumi che la pellicola può generare ancora oggi.
Il mito di Cannibal Holocaust
Il film ebbe molte vite. La prima fu molto corta in sala, dove ritornò pesantemente mutilato. Con le prime VHS e con i DVD poi ricominciarono a circolare le leggendarie versioni integrali. Per una storia interamente basata sulla messa in onda di filmati ritrovati, la fruizione casalinga ne aumentò a dismisura la portata emotiva. Diventò un film maledetto, proprio come quello finto, ritrovato in Amazonia, il cui solo titolo faceva paura anche ai cinefili più incalliti. Mentre questo accadeva, Cannibal Holocaust riceveva anche una progressiva rivalutazione accademica. Il suo fu un salto rapido dal grindhouse all’arthouse. Riemersero sottotesti meno espliciti di psicanalisi, di linguaggi artistici, di posizioni ideologiche, che ne legittimarono la visione anche appassionata.
Si capì che quello di Deodato era un orrore che si mostra senza filtri per riflettere su se stesso. Fu un film estremamente radicato nel suo presente, senza alcuna ambizione profetica. Eppure riuscì a intuire quello che sarebbe diventata l’immagine del vero nell’epoca contemporanea. Non serve una grande abilità informatica per trovare online immagini raccapriccianti quanto quelle riprese sul set. Gli attentati si svolgono in diretta sui social, le guerre vengono trasmesse e raccontate a portata di smartphone.
Oggi è stato ampiamente superato per la crudeltà delle immagini che ha catturato. Resta imbattibile invece nella capacità di infastidire. Con l’orrore vero, la violenza non simulata, che passa nei media d’informazione proviamo sgomento, ribrezzo, rabbia, preoccupazione. Emozioni diverse da quelle generate da Cannibal Holocaust. Perché non c’è alcun brivido del proibito nel guardare la cronaca, nel film di Deodato invece sì. Si finisce la visione sentendosi come se si avesse sperimentato internamente una perversione, come se si fosse toccato con mano un corpo in decomposizione.
È merito della colonna sonora di Riz Ortolani, che allontana dal cinema verità e ricorda di stare vedendo un film. Dolcissima, sognante, è una musica guarda l’orizzonte con l’ottimismo del progresso. È il tema dell’occidente, che utilizza le note delle musiche trionfali mentre racconta la potenza predatoria e violentatrice della civiltà. Un elemento dissonante e totalmente cinematografico che si tocca con la realtà rendendola sconvolgente.
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