Candyman: 30 anni fa Clive Barker lasciava che le città raccontassero se stesse

A trent'anni dalla sua uscita Candyman è ancora un lavoro ineguagliabile sulla condizione urbana, sulla segregazione architettonica

Condividi

Le strade in cui corrono le auto colorate sono come interiora infestate da api voraci. Non poteva aprirsi meglio Candyman: un’opera assoluta, un lavoro di una lucidità ineguagliabile sulla condizione urbana, sulla segregazione architettonica, e sul potere generativo della parola. Bernard Rose, ci mette gli occhi, Clive Barker la sua capacità di ascolto delle paure irrazionali già presenti nei discorsi tra la gente vera. Trent’anni fa la leggenda di Candyman portava in un cinema horror già saturo di assassini paranormali, macellatori della carne, il più intangibile di tutti. 

Due studentesse universitarie stanno ricercando per la loro tesi di laurea l’impatto delle leggende urbane nei racconti delle persone. La più suggestiva di queste leggende è quella di Candyman: il fantasma di un pittore nero vissuto un secolo prima. L’uomo si era innamorato di una donna bianca e l’aveva messa incinta. Scoperto, è stato sottoposto alle peggiori torture. Gli è stata amputata una mano e inserito nella carne un uncino. Cosparso di miele è stato devastato dalle api e infine bruciato. Non ha mai lasciato Cabrini Green, un quartiere povero di Chicago, sovraffollato e malfamato. Basta guardarsi allo specchio e pronunciare cinque volte il suo nome per evocarlo. 

Prima di Parasite, prima del cinema horror sociale di Jordan Peele, o delle leggende folkloristiche di Robert Eggers, Candyman dava forma concreta alla suggestione verbale e all’architettura rivelatrice di una società non vista. Le superstizioni, i racconti urbani che si passano di bocca in bocca, sono per Barker e Rose concretissimi. Sono le pareti a custodirli. Così l’intero impianto scenografico del film si rifà a quello tedesco degli anni ’20 diventando un romanzo gotico moderno. Candyman è un Dracula afroamericano. Fu accusato di razzismo per questo, eppure oggi appare quanto di più emancipante l’horror abbia fatto in quell’epoca. C’è un mostro immortale e una bionda in pericolo, ma il punto è un altro: l’horror ricorsivo, ovvero il terrore che genera se stesso, che riflette sulle sue forme, che viene raccontato.

Le pareti raccontano storie

Impossibile trovare un altro film horror contenente così tanti oggetti significanti, con un’importanza alla stregua di personaggi, come in Candyman. La sua demoniaca presenza è frutto di un collage di elementi simbolici e addirittura diegetici al racconto che viene fatto dalle persone. Anche solo per evocarlo se ne incontrano almeno 4: prima di tutto c’è lo specchio. La visione che riflette su se stessa e che costringe a maledirsi. Ci si guarda negli occhi prima della propria morte. Un uomo nero è stato ucciso per razzismo e intolleranza. Sopra le sue ceneri la società ha costruito interi palazzi, ha speculato, ha fatto denaro per poi abbandonare la popolazione. Lo specchio è un dito puntato contro se stessi.

L’uncino è l’arma che trafigge la carne, ma è anche il gancio che tiene a sé. L’hook della storia, l’elemento narrativo che avvinghia l’ascoltatore e non lo lascia più. Ogni grande mostro cinematografico ha bisogno del suo simbolo: gli artigli di Freddy, la cicatrice di Frankenstein, la maschera di Halloween. Candyman non è sintetico, accumula su di sé una molteplicità di elementi segnalatori della sua presenza. Il cappotto marrone, abbondante e caldissimo che lo veste come se, nonostante le fiamme in cui è perito, avesse sempre il lungo freddo della morte. Poi ci sono le api, già viste in apertura del film in analogia con lo sciame umano che si muove nelle strade. Infine - come quarto elemento simbolico - il costato aperto, la cassa toracica in cui si insinuano gli insetti come una casa, o una città. 

Le storie (l’uncino), la socialità (le api), le mura (il corpo) sono raccontate nel film con un tale occhio per la loro mostruosità che da sole potrebbero sopperire alla presenza dell’assassino. A fare paura sono infatti le leggende raccontate nei quartieri, sono le superstizioni che offrono una giustificazione al perseverare della propria condizione di marginalità (non è colpa dei bianchi, pensa la popolazione, è colpa del fantasma). In Candyman c’è in giro un assassino. Se sia questo reale, demoniaco, o frutto di psicopatia, non lo si potrà mai dire con certezza. Helen è pazza? L’evocazione è vera (seppur talvolta fallace), o è tutta una suggestione collettiva per giustificare la crescente violenza in un palazzo fuori controllo?

Questa storia, per come messa in scena, sembra raccontata dai muri.

Candyman è un film di parola

I mostri non parlano. Solitamente arrivano subito al dunque. Colpiscono, uccidono, si raccontano attraverso le loro mattanze. Candyman è diverso, e per questo è straordinario. Lui parla perché lui è discorso, lui si annuncia perché lui è leggenda. A Bernard Rose non importano gli individui, persino Helen, che Virginia Madsen caratterizza al massimo delle sue possibilità, è poco più di una generica ragazza bianca emancipata. Così come ci sono generici bambini neri, donne sole, professori colti ma maliziosi e frivoli, gang che sembrano tratteggiate sulle descrizioni della cronaca. Il vero soggetto dotato di una psicologia distintiva e in continuo mutamento è la città. Un territorio schizofrenico eppure comunicante.

I palazzi della borghesia sono soffocati. Hanno tante bocche, pareti bucate, sigillate con i mobili da una parte e dall’altra. Hanno colori tenui, pastello, che poco dicono. Sono pareti che contengono sangue coperto da strati di vernice. Nei quartieri poveri invece l’urbanizzazione è soffocante ma non è taciuta. I corridoi conservano nei graffiti i racconti dei suoi abitanti. Sono parole inespresse a voce, grida di rabbia che non riescono più ad essere soppresse. Si brucia la frustrazione, si cerca di purificare un ciclo di violenza che non ha origine se non nella storia. Non è Candyman che opprime il quartiere: è la marginalità. 

Una leggenda diventa vera quando viene creduta. Questo non terrorizza chi riceve il racconto; ci convive fino a morirci. Oppure lo rimuove. Non ne parla, si rassegna alla sua condizione di oppresso. Le inquadrature in volo sopra l’università ne mostrano la sua forma architettonica simile ad un amplificatore. I buchi dalle pareti del Cabrini Green sono come padiglioni auricolari. Una volta attraversati rivelano una prospettiva opposta. Una bocca. 

La dolcezza nascosta in Candyman 

Come una lima nascosta in un dolce, il film riesce ad essere tagliente eppure consolante. Aiuta la splendida musica di Philip Glass, anticipatore delle moderne colonne sonore minimali, fatte di sospiri e gemiti. Le sue note danno un indizio interpretativo fortissimo: la melodia è quasi avvolgente e consolante, liturgica in altri momenti. Si ascolta poco la rottura, molto di più la riconciliazione.

Si può scoprire molto di Candyman a partire da questa prospettiva. Concedendogli insomma la possibilità di essere un’opera sulla capacità di rinascita invece che sulla morte.

Helen fa una scelta che ribalta l’organizzazione della scrittura. Attraversa una parete entrando nel buco (o nello specchio) e finendo dall’altra parte. Entra nelle orecchie di chi ascolta, simboleggiate dai tanti cunicoli e si trova in mezzo alla bocca di un gigantesco murale ritraente Candyman. Lei esce da qui e inizia così la costruzione del suo mito. Quella della donna bianca amata dall’uomo ucciso che a lei si vuole ricongiungere. Vivere in eterno nei discorsi, nei muri e nella cultura. 

Nella prima ora si ricerca un assassino, nella seconda si cerca un bambino. Lo si troverà e addirittura lo si salverà, anche se i tempi non tornano: il bambino viene ritrovato settimane dopo la sua sparizione, impossibile che sia ancora vivo.

Nel frattempo crolla la certezza della cultura bianca: da osservatori esterni che sfruttano ciò che vedono ai fini del loro racconto, delle loro tesi, si ritrovano crudeli colpevoli a subire un contrappasso. Helen trova la risposta che stava cercando guardandosi nello specchio. Chi è l’assassino? Il mito è vero? La risposta per entrambi i quesiti è in Helen. 

Lei è a sua volta una tradita e ha una capacità peculiare, non condivisa dalla cerchia di persone eleganti e benestanti che frequenta. Lei ha occhio, osserva le persone, e soprattutto ha una naturale propensione all’ascolto delle loro storie. Così rilegge il suo delirio al contrario, smette di considerare la persecuzione subita ad opera di Candyman come una vendetta, bensì come un atto d’amore. Lui vuole renderla immortale portandola con sé. Lei sacrifica la sua vita per salvare il bambino dalle fiamme (o viene sacrificata dalla comunità nera per riaverlo?). Si libera dello spirito che la trattiene e rinasce lei stessa sotto forma di leggenda. Passa attraverso la bocca del suo aguzzino, e diventa qualcosa d’altro. Solo un bambino riuscirà a vedere questo scambio tra le fiamme.

Helen, consapevole o meno, è l’unica che restituisce qualcosa alla comunità nera. Lo fa pagando il prezzo più alto. Lei è l’unica che, sapendo far sue le parole altrui, rompe la distanza con Cabrini Green. Il suo percorso la porta da osservatrice a narratrice (con gli interrogatori) fino ad essere oggetto di racconto. Eppure “contaminandosi”, entrando all’interno di un corpo di palazzi e muri che inizialmente la rigetta, è riuscita a liberare il posto da Candyman. Per gran parte del film ci si convince che il mostro sia simbolo dei pregiudizi e dei sospetti verso le comunità emarginate da parte dei ceti alti. Invece è esattamente il contrario: l’uncino gettato sulla bara è un’ascia di guerra deposta. La fine, momentanea, di una rabbia sopita, esplosiva e incendiaria.

Potete seguire BadTaste anche su Twitch!

Continua a leggere su BadTaste