Candyman è la origin story di un supereroe
Candyman di Nia DaCosta prende i temi razziali del film originale e li attualizza, piegando il mostro alle necessità odierne
Candyman, inteso come il mostro da film horror che appare se pronunci il suo nome cinque volte allo specchio e ti taglia la gola, è molto diverso da Candyman, il film di Bernard Rose del 1992, che a sua volta è diverso dal franchise di Candyman, che conta al momento quattro film, qualche sequel fallito e persino dei crossover mai andati in porto con Hellraiser e Leprechaun. Il primo e il terzo sono due facce della stessa medaglia, quella che di un film coglie solo gli aspetti più superficiali e memetici e li trasforma in una formuletta infinitamente ripetibile per raggranellare qualche soldo quando serve; il secondo è un horror politico cupo e crudele che parla di temi che nel 1992 erano ancora relativamente pionieristici per il genere.
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Lui a sua volta ha deciso di non occuparsi della regia ma solo della scrittura, un aggiornamento della mitologia di Candyman e soprattutto del mondo in cui si muove (o manifesta). Sulla regia torneremo, concentriamoci quindi ancora un attimo sulla storia. Candyman è, nella tradizione di tutti i sequel tardivi usciti in questi anni, un film che ignora quanto successo nei capitoli successivi al primo e si propone come Unico Vero Sequel – in modi anche più profondi di quelli che si possano intuire all’inizio, soprattutto se non si hanno bene stampati in testa certi dettagli dell’originale. E siccome è ambientato sempre nel e intorno al Cabrini-Green, ma trent’anni dopo, è un sequel completamente diverso dal precedente.
Candyman di Bernard Rose era praticamente The Wire dieci anni prima e con il mostro. Le Cabrini-Green Homes sono talmente famigerate in America che la loro pagina Wiki è lunga come quella di intere città. Il film era ambientato in un non-mondo, simbolo del disinteresse pubblico per le fasce più povere della popolazione, in particolare quelle nate con il problema di non avere la pelle bianca. Peele, però, sa che certe situazioni e certi contesti sono inestricabilmente legati al tempo in cui vengono raccontate le loro storie, e che rifare lo stesso film in un contesto identico non avrebbe avuto senso. Perché le stesse Cabrini-Green sono state demolite e ricostruite dopo il 1999 grazie a un Piano per la Trasformazione che ha reso il quartiere un luogo quantomeno abitabile; e perché la zona è ormai un quartiere misto, nel quale rare sacche di povertà (meno estrema di quanto fosse trent’anni fa) sopravvivono in mezzo a grattacieli, villette e altre abitazioni dall’aspetto gradevole.
E quindi Peele prende Candyman, inteso come franchise, e lo trasforma in un horror sulla gentrificazione, e su come quello che un tempo era un ghetto non ufficiale è stato trasformato in un luogo a buon mercato, sì, ma vivibile e adorabile così da attirare un’intera genìa di artisti, creativi e altre figure ibride che, come dice nel film una critica d’arte, “vivono qui dove costa poco perché così non si devono preoccupare di trovarsi un lavoro vero”. Prende le vittime del primo film, le famiglie nere terrorizzate dal Candyman ma ancora di più terrorizzate da come il resto del mondo le tratta, e le promuove: i protagonisti sono una coppia altoborghese, lui artista a tutto tondo, lei con abbastanza senso pratico da fare l’organizzatrice di eventi e mostre, che vive nei paraggi del fu Cabrini-Green in una casa di design costruita apposta per far sbavare d’invidia chi guarda.
In un contesto del genere, nel quale anche i neri sono stati risucchiati nella bella vita (perché, come si dice a un certo punto, “i bianchi amano il nostro lavoro, anche se non amano noi”), Peele sa che Candyman non può più essere un mostro nato dalla rabbia cieca e che sfoga le sue frustrazioni da spirito di vendetta contro i poveri e gli innocenti. E quindi Candyman è un film che, sottilmente e con logica inappuntabile, trasforma la figura del mostro sanguinario in una sorta di supereroe, un vendicatore nato dalla frustrazione di chi si sente tagliato fuori e la cui leggenda è propagata e tenuta in vita dalla forza della disperazione.
SE NON AVETE ANCORA VISTO IL FILM SALTATE LA PROSSIMA FRASE: il finale del film è il momento in cui la trasformazione si compie definitivamente, perché per la prima volta Candyman non ammazza la persona che lo ha evocato ma ne diventa uno strumento – potrebbe essere un punto di svolta per il futuro della saga, se ce ne sarà uno.
Accennavamo prima al fatto che Peele ha voluto dedicare tutte le sue energie alla scrittura e, per la regia, si è affidato a Nia DaCosta, al secondo film della sua carriera dopo il thriller Little Woods. Con il senno di poi ha fatto bene: DaCosta è della scuola-Peele che prevede l’applicazione giudiziosa ma all’occorrenza generosa di svariate dosi di fighettismo spinto, ma sa anche quando fermarsi e non esagerare, e ha un gusto notevole nel raccontare la violenza anche esplicita senza prendere la scorciatoia del torture porn. Purtroppo a tratti la sua direzione è soffocata dalla necessità di Peele di far parlare il suo film, che è forse la sua opera più didascalica ed esplicita – ma d’altra parte gli spiegoni sono un trope classico del genere, per cui possiamo perdonargliene l’abuso, soprattutto se tutto il resto è confezionato con tanta cura.