Boyhood riesce a mostrarci qualcosa di mai visto prima, come non capitava da decenni
12 anni nella vita di un bambino raccontati girando effettivamente per 12 anni. Boyhood a una storia bellissima aggiunge il marchio del tempo sui corpi
È la prima volta che un lungometraggio ci mette di fronte all’indescrivibile e malinconico romanticismo del tempo che passa sul corpo umano. O quantomeno la prima volta che lo fa davvero, senza trucchi posticci che suonano sempre fasulli e senza cambiare attore in momenti diversi dell’età del personaggio. Solo il vero e impietoso passaggio del tempo riflesso dai mutamenti del corpo. È tutto finalizzato a questo Boyhood, l’incredibile impresa di Richard Linklater, il film che racconta 12 anni nella vita di un ragazzo e che è stato girato effettivamente lungo 12 anni.
Nell’epoca del postmoderno ci eravamo convinti che l’unica cosa in grado di stupirci in una sala fosse l’avanzamento del digitale e i progressi fatti in materia di confusione tra ciò che è reale e ciò che è ricostruito in post produzione. Linklater invece porta a termine un’impresa che per la prima volta da molto tempo mette anche lo spettatore più esperto e smaliziato davanti a sensazioni nuove.
Raccontata attraverso la consueta meravigliosa scrittura leggera a cui ci ha abituato l’autore di Slacker e A waking life, una che passa per i dialoghi più che per le scene o i movimenti, per le parole più che per le azioni, la storia di Mason non è nulla di che, solo un pretesto per guardare i più ordinari tra gli esseri umani comportarsi come tali, svelare il loro essere intimamente simili allo spettatore.
Infatti la cornice in cui sceglie di muoversi Linklater, per ovvi motivi, è quella del period movie, un’impossibile cronaca della contemporaneità fatta in tempo reale (impresa già folle e quindi ammirevole), di anno in anno, e portata avanti attraverso gli abiti, i luoghi e le canzoni come qualsiasi period movie fa. In più decide di riempire questo contenitore con una biografia, l’epica personale di un bambino come tanti narrata a furia di momenti apparentemente casuali (pochissime le scene davvero cruciali nello sviluppo di Mason). Forse solo Tarnation aveva osato tanto ma non si trattava di qualcosa di scritto e messo in scena scientemente quanto di un misto tra documenti d’epoca e finzione, tra realtà e sua elaborazione a posteriori da parte del protagonista.
Tarnation era tutto una scena madre, Boyhood è il suo contrario, vive di momenti che il protagonista qualche anno dopo potrebbe aver dimenticato, quasi ogni segmento è svilito nella sua importanza perchè è l’aggregato che conta. Non cosa sia successo in quel giorno del 2008 che ci viene mostrato ma come stessero cambiando tutti i nostri personaggi, cosa in sostanza è successo nei giorni che non abbiamo visto e che lo separano dal segmento precedente del 2007 o da quello successivo del 2009. È in fondo il medesimo piccolo trucco che porta avanti le avventure di Jesse e Celine (Prima dell’alba, Prima del tramonto, Prima di mezzanotte): avere un lasso di tempo i cui eventi sono ignoti a tutti e in ogni film ricostruirlo lentamente mostrando cosa nei personaggi è cambiato a partire dai loro volti invecchiati.
Con questa strategia Linklater prende da un’altra angolatura i temi più vecchi del mondo (l’amore, la maturazione, l’affetto per i propri cari), che poi sono gli unici che contino davvero, e ci aggiunge un dettaglio di messa in scena sconosciuto al resto del cinema: il reale effetto del tempo.
Per quanto sia lecito sperare il contrario è probabile che Boyhood non stia in sala troppo a lungo. La sua corsa parte giovedì e non si sa quando finirà, tuttavia vederlo è un imperativo per chiunque ami vedere storie di esseri umani filmate e montate per essere mostrate ad un pubblico. E vederlo al cinema è un piccolo piacere in più, un’esperienza quasi unica e probabilmente irripetibile, di cui poter andare fieri.