Box office: cosa sta succedendo ai grandi film d'autore?
Il box office si appella ai supereroi per salvare l'anno. Ma che fine hanno fatto i grandi film con grandi star e perché nessuno li vede?
Mettiamola così: se si va dal medico con una spalla rotta, non gli si fa esaminare la gamba. Allo stesso modo quando si parla di stato di salute del cinema, osservare solo i numeri che fanno i blockbuster tratti da cinecomic e dai grandi franchise significa ignorare un contesto che, se trascurato, può portare a gravi conseguenze.
Una crisi generale del film con grandi star
Sembra passato molto più tempo di quello che è trascorso veramente da quando Parasite vinceva i suoi Oscar e trionfava inaspettatamente anche al box office. Che la ripresa post pandemica fosse più complicata per questo settore di film si era capito già quando il bel La fiera delle illusioni, venne praticamente ignorato nella sua uscita theatrical. Non servì una lettera aperta di Martin Scorsese e una riedizione in bianco e nero per far recuperare il budget a un film sostenuto dalla critica, ma lasciato a terra dal pubblico. Poco meno di 40 milioni di dollari incassati e un pesante tonfo. Nemmeno le star Bradley Cooper e Cate Blanchett sono riuscite a salvare il film.
Con il fenomeno Top Gun si è sperato che un’alternativa fosse possibile. Insieme a lui anche Elvis. Entrambi hanno riportato in sala una parte di pubblico che non era ancora ritornata dal lockdown. Il secondo in particolare, come vi scrivevamo qui, ha avuto il merito di recuperare un segmento più anziano essenziale per la tenuta della struttura di business. Sia Top Gun che Elvis sono però due film che fanno riferimento all’immaginario dei supereroi (un pilota infallibile e il più grande divo di sempre) e si basano su marchi ben noti e apprezzati.
Oltre il cinema dei supereroi, chi altro può essere significativo al box office?
Il caso di Don't Worry Darling è piuttosto ambiguo. Presentato in pompa magna a Venezia è stato sommerso da polemiche (una valida pubblicità, purché se ne parli?). Con 80 milioni di dollari incassati fino ad ora non si può definire un flop. Eppure il pubblico si è disaffezionato alla svelta, con un significativo calo nelle seconde settimane, a questo film che, con un cast straordinariamente attraente prometteva di diventare un cult.
The Last Duel non è riuscito a raccontarsi. Questo nonostante Ridley Scott, Adam Driver, Matt Damon, ben Affleck e Jodie Comer. 30 milioni di dollari incassati, un passaggio rapido in piattaforma. Ennesima vittima della pandemia o ennesimo sintomo di una malattia sistemica?
Non è una questione di qualità. Hanno faticato anche titoli amati dalla critica come 3000 anni di attesa. Il film di George Miller, non ancora arrivato in Italia, è in pole position per diventare uno dei maggiori flop dell'anno con soli 17 milioni incassati. Niente hanno potuto Tilda Swinton e Idris Elba.
Come uscire dallo stallo per i film d'autore?
Il problema è nel rinnovamento. Nuove storie servono per portare persone nuove e per essere quel film in più degli appassionati che già sorreggono il cinema. I film con il grande cast che richiamano un pubblico diverso da quello dei cinecomic servono. Sono vitali alla ripartenza. Perché senza di loro si perderebbe un segmento di moviegoer diversificato e importante per la continuità della tenuta.
Il rischio dei continui flop è di creare una forbice di investimento tra i kolossal sempre più colossali e i film “da Oscar”. Quelli dei grandi registi e dalle grandi ambizioni, amatissimi, che però non strappano biglietti (si può aggiungere West Side Story ai molti esempi). Si può intuire che la questione è ben presente a Hollywood quando un "capo ideologico" del cinema come Martin Scorsese si scaglia contro l’ossessione degli incassi.
Il cinema è svalutato, umiliato e sminuito sotto tutti i punti di vista, non necessariamente quelli dal lato del business, ma di certo dal punto di vista artistico. Fin dagli anni ottanta ci si focalizza sui numeri. Una cosa ripugnante.
Il flop di Amsterdam
Uno dei casi più recenti di crisi dei prodotti di alta fascia non supereroistici viene da Amsterdam di David O’Russell. Peter Bart di Deadline ha analizzato il tracollo di un film costato 80 milioni di dollari incassando la miseria di $6.5 milioni nel weekend di apertura. Due segnali: il primo è la conferma che le grandi star non sono più determinanti per questo tipo di prodotti (nel film c’è una delle formazioni di attori più incredibili dell’ultimo decennio). Il secondo è che questo tracollo rischia di gettare nel panico le altre uscite per un pubblico maturo. The Fablesman è uno di questi, si dice, rischia di non trovare la sua audience. Babylon di Damien Chazelle, non citato nell’articolo, potrebbe essere un altro.
L’analisi è “post mortem” e si sofferma particolarmente sulla forma. Una pellicola difficile da inquadrare in un genere ben preciso, un cocktail di star male assortito tra attori di alto calibro come DeNiro e altri più alla buona come Chris Rock. Insieme alla trama troppo involuta, sono questi fattori che però il più delle volte vengono scoperti dopo avere acquistato il biglietto.
Più interessante quindi il focus su dove sia venuto a mancare l’aggancio verso l’interesse degli spettatori. Amsterdam è stato finanziato dalla New Regency con un accordo con la Twentieth Century Fox prima della vendita a Disney. La distribuzione è gestita dlla Twentieth Century per un’apertura in 3.000 sale. Il marketing è finito in mano a Disney che, insolitamente, non ha portato Amsterdam in nessun festival. Un cast eccezionale non sfruttato nella copertura media.
Il box office delle commedie e degli arthouse
Le commedie invece sono un mercato ancora più difficile da decifrare ma, ad oggi, sono il settore che più realisticamente può confermarsi come capace di penetrare il mercato. Sono significativi tre titoli: The Lost City, che sorprese un po’ tutti incassando 190 milioni di dollari worldwide. Bros, che invece è stato un fallimento scomposto, con polemiche e accuse al pubblico eterosessuale. Ticket to paradise, arrivato a 74 milioni di dollari con ancora tanta strada da fare dal momento che ha illuminato gli schermi in Nord America solo dal 21 ottobre. La combinazione della coppia di attori Bullock-Tatum (per The Lost City) e Roberts-Clooney (in Ticket to Paradise) sembra ancora funzionare per i risultati economici dei film di intrattenimento a cuor leggero.
Nel frattempo l’Hollywood Reporter ha osservato il convegno European Work in Progress in cui a Colonia si sono ritrovati i principali operatori del settore arthouse. Alla presenza dei programmatori dei festival principali, tra cui Venezia, Cannes, Berlino, San Sebastián, e delle case maggiormente impegnate in questo segmento.
È emerso il problema dell’accessibilità ai festival da parte dei regista alla loro opera prima. E soprattutto si è deciso quello che va sostenuto maggiormente. Olivier Barbier, capo delle acquisizioni del distributore francese MK2 ha ribadito che il mondo arthouse non deve cercare film che rientrino in categorie commerciali ben precise. Anzi, vanno sostenuti i prodotti che rompono questa distinzione. “Penso che dobbiamo preservare l’unicità e l’originalità del sistema arthouse” ha detto.
La speranza è quindi quella di riuscire a ritagliarsi un proprio spazio che renda altresì significativa la fruizione all’interno della sala. Quella del d’essai è infatti l’ennesima nicchia che deve trovare un modo di reagire alla concorrenza delle piattaforme e ad un mercato che sembra ormai irrimediabilmente cambiato.
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