Bones and All: tutto quello che c'è da sapere sul film di Luca Guadagnino

Ecco tutte le informazioni su Bones and All, il film di Luca Guadagnino con Taylor Russell e Timothée Chalamet presentato a Venezia

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Oggi al Festival di Venezia è il giorno di Bones and All, il nuovo film di Luca Guadagnino con Taylor Russell e Timothée Chalamet.

In occasione del lancio del film, che uscirà in Italia al cinema grazie a Vision Distribution, è stato diffuso il pressbook completo con tutte le informazioni, gli approfondimenti, le dichiarazioni del regista e del cast, assieme ad alcune immagini.

Il film

Luca Guadagnino (Chiamami col tuo nome) ci propone una storia d'amore di una dolcezza tanto sublime quanto oscura e inquietante, un viaggio on the road di due giovani statunitensi disadattati alla ricerca della propria identità, che condividono un appetito feroce e devastante che li allontana dal resto del mondo e, per quanto anelino a trovare un luogo nel quale sentirsi davvero a casa, li porta a fuggire.

Il loro viaggio da disertori della società ha inizio negli anni ‘80 con la giovane Maren, la quale cela un segreto sin dalla nascita, spinta da una voracità inspiegabile che va oltre ogni limite umano. Incapace di comportarsi come gli altri e in costante peregrinazione di città in città, ha sempre avuto la sensazione di essere un’emarginata senza possibilità di appello. Quando il padre, affranto, si rende conto di non poterla più aiutare, a Maren non resta che andarsene e arrangiarsi da sola. Ed è lì che scopre di non essere l’unica. Al mondo esistono altri come lei. Altri che provano quello stesso bisogno impellente. Altri come Lee, un ribelle di paese che la aiuta a sopravvivere, le si affeziona sempre di più e riesce a vedere al di là dei suoi desideri proibiti, anche quando i due diventano pericolosamente vulnerabili l’uno per l’altra.

Nonostante la loro sia una patologia raccapricciante, Guadagnino porta la storia di Maren e Lee ben oltre i confini del genere. Le loro voglie implacabili non sono trattate come un qualcosa di cupo o mostruoso, quanto, semplicemente, come un destino ineluttabile. E a mano a mano che la vicenda si dipana, il racconto – magistralmente interpretato dall'ormai famosissimo Timothée Chalamet e dall'astro nascente Taylor Russell, le performance dei quali sono di una potenza emotiva disarmante – si trasforma in qualcosa di diverso: una liberatoria odissea on the road di due giovani che tentano di trovare il proprio posto nel mondo, alla continua ricerca di identità e bellezza in un contesto irto di pericoli, che non riesce a tollerare il loro modo di essere.

Guadagnino non ha mai inteso la fame di carne umana dei personaggi, per quanto improvvisa e minacciosa, come un modo per rompere i tabù al mero fine di scioccare il pubblico, bensì l’esatto contrario, ovvero mettersi nei panni di chi si sente perso, di chi non riesce a trovare il proprio posto e si ritrova a vagabondare ai margini, di chi viene costantemente respinto dalla società eppure accettato dai propri pari. Bones and All, afferma il regista, è un film “sugli amori impossibili, sui reietti e sul sogno di trovare un luogo in cui sentirsi a casa”.

E prosegue: “È la storia di due giovani che scoprono che, per loro, non esiste un posto da poter chiamare casa, per cui devono reinventarselo. Maren e Lee vanno alla ricerca della loro identità in situazioni estreme, ma le domande che si pongono sono universali: chi sono, cosa voglio? Come posso sfuggire a questo senso di ineluttabilità che mi trascino dietro? Come possono entrare in sintonia con qualcun altro?”


Le origini di Bones and All

I film profondamente umani di Luca Guadagnino, che sembrano in grado di carpire i più indescrivibili e viscerali sentimenti dell’animo, hanno affrontato svariate tematiche, sebbene, forse, il regista sia amato soprattutto per quel luminoso racconto di un lussureggiante amore estivo qual è Chiamami col tuo nome. Anche Bones and All è una travolgente storia d’amore tra due giovani, ma è ambientata in un mondo agli antipodi rispetto all’altro. Si tratta del primo lungometraggio di Guadagnino realizzato negli Stati Uniti e rappresenta un tuffo nella più classica tradizione americana dei “viaggi di transizione” on the road. Ma questa è un’America dai tratti quasi mitici in cui due persone senza un futuro definito, e condannate a essere “altro”, inseguono un glorioso sogno di fuga e accettazione.

Guadagnino si imbatte per la prima volta in questa storia tramite l’adattamento fatto da uno dei suoi sceneggiatori preferiti, David Kajganich, il quale, sempre per Guadagnino, si era già occupato della commedia romantica A Bigger Splash e del remake di un grande classico dell’horror, Suspiria. Il regista rimane “stregato” da questo racconto così diverso dal solito, che lascia spazio a molteplici interpretazioni. “Le sceneggiature di David sono talmente fuori dall’ordinario e così bene connaturate all’animo umano da rifulgere sempre come un gioiello prezioso; il suo messaggio arriva al pubblico diretto e inequivocabile. Nel giro di un attimo, mi sono sentito inconsciamente attratto da questo mondo” dice Guadagnino.

Quel mondo trae ispirazione, sebbene con delle differenze, dall’omonimo romanzo YA del 2015 scritto da Camille DeAngelis in cui, partendo dall’idea di un’adolescente geneticamente nata con il bisogno di consumare esseri umani, si stravolge completamente il racconto di formazione.

Nel suo adattamento, Kajganich si concentra sul modo in cui Maren combatte con le ansie, perfettamente comprensibili, di una qualunque ragazza che scopre il suo potere: con le insicurezze sull’amore e sulla moralità, con il fardello e i misteri del proprio corpo, con il fascino e lo scotto della ribellione, e con le difficoltà poste non solo dal forgiare un senso di sé, ma dal coraggio di imporre quel sé al mondo, a prescindere da quanto sia complicato. Nel caso di Maren, poi, tutto ciò confluisce in un unico, enorme problema, dato dal dubbio se mai riuscirà a legarsi a qualcuno a dispetto del tremendo istinto che la spinge a divorare le persone che ama, fino all’osso.
Per Guadagnino, la principale fonte di ispirazione sono stati i personaggi stessi creati da Kajganich (vagabondi, senzatetto, anime solitarie che conducono le loro vite invisibili al di fuori dei percorsi battuti dalla società), più che la loro fame implacabile. L’ha vista come un’occasione per esplorare un ventaglio di diversità e solitudini di quella parte d’America che passa inosservata, ma soprattutto per analizzare ciò che lega gli esseri umani quando tutto il resto minaccia di dividerli.

“Sono attratto da coloro che, forse per scelta, non sono al centro dei giochi. Per me, Bones and All è la storia di due persone che sono costrette a vivere ai margini della società” dice Guadagnino. “Non l’ho mai visto come spaventoso. Volevo che le persone amassero questi personaggi, li comprendessero, tifassero per loro e non li giudicassero. Il mio desiderio è che il pubblico veda in Maren e Lee il riflesso cinematografico di tutte le possibilità che fanno parte di noi in quanto esseri umani”.

Nelle intenzioni di Guadagnino, il cannibalismo che permea il film non rappresenta tanto una provocazione, quanto un’atmosfera. Il regista evidenzia il fatto che cibarsi di carne e sangue umani sia da sempre una metafora religiosa e letteraria. Tuttavia, lui ha scelto di approcciarsi agli inquietanti appetiti dei personaggi come a un semplice dato di fatto, una necessità tanto concreta e impellente quanto lo è dormire. Inoltre, cosa ancora più importante, è una disfunzione che implica paura, vergogna, impulso e pregiudizio, rendendoli degli emarginati e costringendoli ad affrontare, in modo costante e concreto, quel lato primordiale della natura umana, il danno che tutti siamo capaci di infliggere. Quando si nutrono, Guadagnino pone l’accento sul fatto che per loro sia un qualcosa di “difficile e triste”, necessario e soddisfacente, ma che porta sempre al rimorso.

Questa visione aggiunge realismo. “Questa è una storia di persone affette da una patologia che non sono in grado di controllare, e che può suggerire la presenza di molte altre problematiche”, riflette il regista. “Ma, sin dal principio, io ho semplicemente creduto nell’esistenza di questa gente. E ho voluto che anche il pubblico ci credesse, senza dover inserire alcun elemento fantasy”.

Da sempre attratto dai personaggi femminili forti, Guadagnino tenta di analizzare la ricchezza e la complessità con cui Maren, non più bambina ma non ancora un’adulta, si approccia a un destino che non si è scelta. La ragazza non accetta mai passivamente i suoi impulsi, ma si arrovella ogni volta sul dilemma morale di non potersi liberare da questa vita senza danneggiare gli altri.

Guadagnino è particolarmente interessato al fatto che la ragazza non solo provi a scendere a patti con chi è, ma vada oltre, forzando i limiti di chi potrebbe essere all’interno di una realtà che vuole invece metterla al bando, tarparle le ali, farla sentire in pericolo.

“Ho sempre visto Maren come una girovaga che va alla ricerca di sé nella più classica tradizione letteraria americana” spiega il regista. “Ha le tipiche qualità di colei che innesca il processo della scoperta, ma con le specificità date dal fatto di essere una giovanissima reietta ai margini della società negli anni ‘80”.

Inoltre, il progetto ha fatto un grande regalo a Guadagnino, offrendogli la possibilità di riunirsi a Chalamet, che il regista sapeva sarebbe stato perfettamente in grado di canalizzare quel misto di innocenza e irrequietezza che caratterizza il personaggio di Lee, dando, al tempo stesso, un tocco di contemporaneità al racconto. “L’esperienza di Chiamami col tuo nome è stata meravigliosa e, da quel momento, ho guardato Timothée sbocciare sia nel cinema che come persona” afferma. “L’ho detto subito, faccio questo film solo se c’è Timothée. Lui ha adorato la sceneggiatura, così abbiamo iniziato a lavorarci – insieme a David – per fare in modo che alcuni elementi spiccassero ulteriormente”.

Era entusiasta anche di girare il film da forestiero in alcune zone degli USA in cui non era mai stato, e di ricreare un’America anni ‘80. “Gli anni ‘80 sono stati un periodo di grandi contraddizioni”, osserva, “durante il quale alcuni comparti dell’economia americana hanno visto una forte espansione mentre altri ne sono usciti impoveriti, in cui l’ottimismo era alle stelle, da cui tuttavia alcuni sono rimasti tagliati fuori. Ho l’impressione che il periodo storico corrisponda alle contraddizioni interne di questi personaggi, al loro tentativo di sistemarsi senza avere, però, alcuna possibilità di riuscirci”.

L’unica cosa che Guadagnino si è categoricamente rifiutato di fare è ammantare Maren e Lee anche solo di un lieve alone di ironia o sarcasmo. In ogni singola inquadratura del film ha trattato i due personaggi con il più affettuoso riguardo, una scelta molto forte. “Non c’è cinismo in questo film” afferma Guadagnino. “Ne è completamente privo. E questo è stato possibile solo perché Taylor, Timothée e tutto il resto del cast si è impegnato a mostrare la massima umanità. Per come la vedo io, la satira e il cinismo rischiano di diventare, con eccessiva facilità, una coperta sotto la quale nascondere le cose, e in questo film io volevo uno sguardo diverso. Volevo essere pienamente fedele alle emozioni di Maren e Lee”.


Impersonare Maren

Per interpretare Maren, che deve farsi strada nel mondo da sola, che deve proteggere sé stessa da ciò che desidera, che affronta i più oscuri pericoli per una giovane donna che vive ai limiti, Guadagnino aveva in mente un’attrice sin dal primo momento. Avendo visto Taylor Russell in Waves - Le onde della vita, il film di Trey Shults che ha segnato la svolta della sua carriera – e che le è valso il Gotham Award come Attrice Rivelazione, ha capito subito che era perfetta per poter esplorare l’inesplorabile. Dopo una conversazione che ha confermato il loro legame, Guadagnino le ha detto: “Se vuoi questo ruolo, è tuo”.

Russell desiderava ardentemente avere l’opportunità di interpretare Maren. L’attrice ricorda: “Dopo esserci incontrati, Luca mi ha inviato la sceneggiatura; io sono rimasta impressionata, perché non avevo mai letto niente del genere prima di allora. Mi è piaciuto subito che fosse una storia di speranza, in cui si racconta che, anche nella “alterità”, si può comunque creare una profonda connessione. Ho adorato che Maren fosse così misteriosa e difficile da catalogare, e l’ho sentita vicina per quel suo costante anelito. E dal momento che Luca è una delle persone più poetiche che io abbia mai incontrato, una persona incredibilmente attenta e sensibile nei confronti dell’animo umano e della sua complessità, ho immaginato fosse un abbinamento perfetto con questa storia”.
Sul set, Guadagnino vede il personaggio di Maren crescere in ogni modo possibile. “Per me, Maren ha raggiunto la completezza grazie a Taylor,” dice il regista. “Taylor è stata capace di rendere Maren poco trasparente, certe volte, e testarda, certe altre; è stata in grado di esplorare qualità che potrebbero essere considerate ripugnanti, eppure, tutto è sempre stato permeato dalla sua grande empatia. Ha reso i difetti di Maren molto più toccanti”.

Per Russell, il punto chiave per il personaggio di Maren era trattarla come qualcuno che tenta disperatamente di sfuggire ai giudizi e, al tempo stesso, sperimenta l’inebriante e intossicante libertà del primo amore. “È ancora un’adolescente e, in quanto tale, nella maggior parte dei casi non ha la situazione sotto controllo”, osserva Russell. “Per Maren, quest’esperienza è ancora più intensa che per le altre persone. Quando il padre la lascia è un momento di forte precarietà, e lei è a un’età in cui già di per sé sente tutto amplificato. La sua intera vita è stata segnata dal non potersi legare agli altri, ciononostante è dotata di una sensibilità e di una consapevolezza incredibili che devono essere espresse. È questo che trova con Lee”.

Sotto la guida di Guadagnino, Russell ha fatto sì che il cibarsi di esseri umani di Maren non fosse un qualcosa di alieno, bensì un dato di fatto del tutto naturale e dal quale la giovane non può far altro che trarne il meglio che può, come capita con qualunque altra difficoltà della vita. “Si tratta semplicemente di ciò che è costretta a fare per sopravvivere” così Taylor riassume la questione. “Deve arrendersi alla sua fame, anche se non è questa la vita che vorrebbe. Secondo me, il cannibalismo del film è solo un contenitore che racchiude tutti gli altri temi su cui verte la storia. Per come la vedo io, lei ha tantissimi altri aspetti ben più interessanti rispetto alla sua malattia”.
L’incontro con Lee, con il suo sorriso malizioso, la sua stravaccata timidezza e quell’audacia quieta, dà a Maren una ragione per credere in un altro tipo di vita, in una vita di condivisione, mentre davanti a loro si apre una strada che non pone limiti a chi possono essere. Il loro girovagare dona a Maren tutto ciò che aveva sempre pensato di non poter avere, e che afferra a piene mani. Il paesaggio stesso inizia a imprimersi su di lei. “La crudezza della strada e degli uomini che incontra le danno il permesso di sfogare la sua parte selvaggia alla luce del sole” dice Russell.

L’attrice ama il fatto che Maren e Lee si influenzino l’un l’altra in modo paritetico. “Sono due amanti sventurati ma, in un certo qual modo, anche due anime gemelle” commenta. “Hanno un cuore e un’anima affini, e hanno lo stesso senso di cura. Prima che incontrasse Lee, nessuno era mai stato sincero con Maren riguardo a chi fosse lei veramente, o a ciò che le stava accadendo, cosa che le provocava un senso di vergogna. Ma con Lee, per la prima volta, sente che qualcuno la capisce e la sostiene proprio per essere così com’è. All’inizio c’è una sorta di tira e molla perché lui è un estroverso, mentre lei è più introversa. Lui la spinge verso l’esterno mentre lei lo aiuta a scavare all’interno”.

Lavorare assieme a Chalamet ha fatto sì che quest’idea si realizzasse in senso concreto. “Io lo adoro” afferma Russell. “Timothée è davvero uno che pensa fuori dagli schemi e in più ha la capacità – molto rara al giorno d’oggi – di spogliarsi completamente di sé. Abbiamo parlato moltissimo e abbiamo condiviso un sacco immagini, è stata una collaborazione unica e difficile da definire, proprio come il rapporto tra Maren e Lee”.

Tra gli altri riferimenti, Russell e Chalamet hanno parlato delle classiche coppie cinematografiche di fuorilegge, da La rabbia giovane a Bonnie e Clyde, e hanno guardato alcune riprese degli anni ‘80. Personalmente, Russell ha anche tratto ispirazione da una delle sue canzoni preferite: “Wildflowers” di Dolly Parton.

“Durante le riprese ho ascoltato un sacco quella canzone, perché sembrava proprio la canzone di Maren” spiega. “Una parte del testo dice: ‘sono cresciuto in fretta e libero e non mi sono mai sentito a casa in un giardino così diverso da me. Non appartenevo a quel posto, desideravo solo andarmene, così il giardino, un giorno, mi ha lasciato libero.’ Quando penso a Maren alla fine della storia, la immagino così: libera, impossibile da inseguire o da definire”.


La reunion con Chalamet

Timothée Chalamet ha raggiunto la notorietà mondiale in men che non si dica grazie al ruolo di Elio, l’adolescente perdutamente innamorato e dall’intelligenza sopraffina del lungometraggio di Guadagnino Chiamami col tuo nome, la cui interpretazione ha contribuito a trasformare il film in un vero e proprio fenomeno culturale. Definito come un talento di quelli che “ne nasce uno a generazione”, si è guadagnato una candidatura agli Oscar, uno stuolo di fan a livello mondiale, e ha iniziato ad accaparrarsi alcuni dei ruoli più accattivanti e iconici della sua generazione, tra cui quelli nei film di Greta Gerwig, Lady Bird e Piccole donne, in Interstellar di Christopher Nolan, nonché il ruolo da protagonista nella saga di fantascienza Dune.

Da allora, Guadagnino ha sempre sperato di poter incrociare nuovamente il suo cammino. “Timothée ha la rara abilità di vedere le cose non solo dal punto di vista del suo personaggio, ma da una prospettiva cinematografica più ampia”, afferma il regista. “È un attore estremamente curioso, aperto e umano ma, oltre a ciò, riesce a toccare delle corde contemporanee, il che era un aspetto fondamentale per questo film. Nel ruolo di Lee, riesce a portare questo senso di contemporaneità. Lascia trapelare tutte le insicurezze del personaggio, ma anche una compassione che è davvero struggente”.

Non appena riceve la sceneggiatura da Guadagnino, Chalamet ci si immerge anima e corpo, curioso di capire cosa avesse portato il regista a pensare a lui. L’attore afferma che, per lui, si tratta di “una storia d’amore per le strade dell’America, che verte su due persone che lottano per superare l’isolamento, cosa che trovo particolarmente commovente di questi tempi, in cui c’è tanta gente che ha mille e uno motivi per sentirsi alienata”.

Per capire a fondo l’irrequieta vita da ‘mangiatore’ di Lee, Chalamet la affronta con un approccio simbolico. “Ho interpretato la condizione di Lee e Maren come una chiara metafora della diversità, del trauma infantile, della vergogna, delle dipendenze, di tutti quei demoni che le persone si trascinano dietro e che non riescono a scrollarsi di dosso”, spiega. “E quello che più mi ha affascinato di Lee è che, per poter gestire tutto questo, si è creato una sorta di fragilissima corazza. Si tinge i capelli, si veste in un certo modo, si atteggia da figo, fiero di essere un outsider, e cerca di aggirare il sistema a suo modo, eppure, tutto ciò si rivela estremamente precario”.
L’incontro con Maren incrina quella fragile barriera che Lee ha costruito attorno alla sua psiche. “Il principale punto debole di Lee è la sua solitudine” osserva Chalamet. “Maren, all’improvviso, fa riaffiorare la gentilezza e il senso di cura che lui aveva messo da parte. Gli apre un mondo di colori e possibilità che lui non era mai stato in grado di sperimentare. Questo lo cambia. Ma al tempo stesso lo spaventa. Credo che nel momento in cui ci si sta davvero innamorando per la prima volta, si abbia come la sensazione di guardarsi allo specchio, e il riflesso che Lee vede lo destabilizza”.
Quando Maren inizia a mettere in dubbio il codice morale di Lee, anche lui si ritrova ad affrontare le conseguenze delle sue azioni come mai aveva fatto prima. “Lee aveva sviluppato tutta una serie di giustificazioni aleatorie riguardo alle persone che sceglieva come prede per sfamarsi. Maren, invece, sta ancora cercando di orientarsi da un punto di vista etico, per cui lo mette in discussione su tutto” nota Chalamet.

Per Chalamet, il film stesso è stato spunto di riflessione, facendolo ripensare ai suoi esordi con Guadagnino, pur imbarcandosi stavolta in un viaggio completamente diverso con il regista. “È stato Luca a donarmi la carriera” sottolinea. “Ma quel film era ambientato in Europa, in un paesaggio idilliaco, per questo ho adorato l’idea di spostarmi stavolta nel cuore dell’America più autentica, tra le strade secondarie dell’Ohio, del Kentucky e del Nebraska, tutte zone che raramente assumono un ruolo da protagonista. È stato un vero onore fare parte del primo film americano di Luca e avere avuto modo di vedere la sua potente sensibilità in azione in un contesto al di fuori della sua comfort zone”.

Un’altra differenza rispetto al passato è data dal fatto che, stavolta, Chalamet ha avuto il tempo di sviluppare il personaggio gomito a gomito con Guadagnino. “Avere questo rapporto creativo con Luca è stato il più grande dono che potessi immaginare” afferma l’attore. “È un filmmaker appassionato e geniale, un vero maestro”.

Allo stesso modo, Chalamet ha amato collaborare con Russell, che lo ha sorpreso a ogni piè sospinto. “È un’attrice straordinaria, con una vitalità di spirito fuori dal comune. È aperta a tutto, incline a provare le novità, e riesce a trasmettere calore ed emotività. Guardandola, ho avuto l’impressione che fosse una spugna, pronta a ricevere qualunque idea, una vera gioia. Spero di avere la possibilità di lavorare nuovamente con lei”.

Ma, soprattutto, Chalamet è rimasto molto colpito da quello che Maren e Lee sono capaci di trovare insieme, mentre si battono per uscire dall’emarginazione. Lo riassume così: “Sono due persone diffidenti e sempre sul ‘chi va là’, che scoprono che è possibile sentirsi al sicuro con qualcuno, e trovare quel genere di conforto che allevia le fatiche dello stare al mondo”.


I compagni di viaggio: i personaggi secondari

Il primo compagno di viaggio che Maren incontra sul suo cammino e che condivide la sua condizione è Sully, un misterioso girovago dal cappello piumato che è stato in viaggio così a lungo che ogni luogo visitato gli si è impresso addosso. Al contempo sapiente ma, oltre l'apparenza, tremendamente bisognoso di attenzioni, Sully inizia Maren agli usi e costumi dei ‘mangiatori’. Le insegna come sfamarsi senza togliere la vita, ma le mostra anche come abbia cercato di dare un senso alla sua esistenza collezionando oggetti di coloro che ha consumato nell'arco della sua vita.
Nella doppia veste di mentore e incombente minaccia per Maren, il ruolo di Sully richiedeva sfumature molto precise e calibrate, nonché la capacità di mescolare il più profondo dolore alla più folle ossessione. Ecco perché Guadagnino l’ha offerto a Mark Rylance, un attore che, nelle parole del regista: “Ho ardentemente e a lungo ammirato, e con il quale ho sempre desiderato lavorare”. Vincitore dell’Oscar per Il ponte delle spie, candidato all’Emmy per il ruolo di Thomas Cromwell nella miniserie televisiva britannica Wolf Hall e magistrale interprete teatrale delle opere shakespeariane, Rylance è noto per la capacità di impregnare i suoi personaggi con un’immobilità ipnotica quanto brulicante di vita interiore.

 “Mark è uno dei più grandi attori esistenti, al giorno d’oggi”, dichiara Guadagnino. “È uno che, nell’arco della sua carriera, ha mostrato le molteplici sfumature dell’animo umano nel più potente e coraggioso dei modi. E Mark ha compreso Sully e la sua profonda solitudine sin dalla prima battuta. Ha capito che non doveva essere un cattivo, bensì un uomo a tre dimensioni alla ricerca di contatto umano e compagnia. Posso dire con certezza che lavorare con lui è stato nientemeno che straordinario. Ha un’incredibile cura per i dettagli e le finiture. Da regista, l’unica cosa che devi fare è essere presente e disponibile”.

Lavorare per la prima volta con Rylance è stato un qualcosa di molto speciale anche per Russell. Riguardo la reazione di Maren all’incontro con Sully, l’attrice commenta: “È maniacalmente curiosa, perché è la prima volta che incontra uno come lei, tuttavia percepisce un campanello d’allarme, perché lui è molto triste, strano e solo. Maren sta ancora imparando a fidarsi del proprio istinto e, per quanto Sully la intrighi, intuisce che c’è qualcosa che non quadra”.

Rylance, poi, ci ha messo del suo per costruire visivamente il personaggio assieme alla costumista Giulia Piersanti. “Un giorno, Mark è uscito per fare un giro in un mercatino delle pulci ed è rientrato sul set con tutta una serie di spillette”, ricorda Guadagnino. “Aveva avuto la brillante idea che, indossandole, potessero testimoniare tutti i luoghi che Sully aveva visitato nell’arco della vita. Si è trattato veramente di una collaborazione splendida e costruttiva”.

Guadagnino scrittura un altro attore ormai diventato un habitué dei suoi film: l’ultra-versatile Michael Stuhlbarg, che eccelle nel ruolo di personaggi realmente esistiti, come quello dell’avvocato David Rudolf, da lui recentemente interpretato per la serie firmata HBO The Staircase - Una morte sospetta, tanto quanto in quelli di fantasia abilmente costruiti.

Stuhlbarg ha solo una scena in Bones and All, nei panni di un minaccioso ‘mangiatore’ in cui Maren e Lee incappano lungo il cammino, ma si tratta di un punto di svolta nella storia. Dice Guadagnino: “Sono certo che la collaborazione con Michael andrà avanti a lungo perché condividiamo la stessa passione per i personaggi complessi e ricchi di sfumature. Il processo lavorativo di Michael è fantastico. Ad esempio, per questo film ha inviato a me e a David Kajganich più di 100 domande pertinenti sul background del suo personaggio. Vedere una tale meticolosità da parte di un attore che interpreta una scena di 10 minuti è impressionante. E il risultato è stato che riesce a trasmettere al pubblico quel presagio di sventura che incombe su Maren e Lee”.

In quella scena è presente anche un altro, inatteso componente del cast: il collega regista David Gordon Green, grande amico di Guadagnino. “Ho incontrato David più di 15 anni fa in occasione di un festival a Torino e abbiamo stretto subito amicizia”, racconta Guadagnino. In origine, era David che avrebbe dovuto dirigere Suspiria, mentre io l’avrei prodotto. Ho pensato che sarebbe stato perfetto per questa scena, così gliel’ho chiesto e lui ha risposto entusiasticamente, e si è perfino sottoposto a un taglio di capelli radicale – una cresta alla moicana! – per cui è stato meraviglioso”.
Ma ci sono anche altri tre attori affermati, già presenti in altri lavori del regista, a interpretare dei ruoli che fanno luce sulla storia familiare di Maren. La prima è l’attrice candidata all’Oscar nonché vincitrice di un Golden Globe Chloe Sevigny, la quale confonde le acque dando una sfumatura di imprevedibilità alla madre di Maren, a lungo l’oggetto delle sue ricerche, in una scena ipnotica. “Avendo lavorato con Chloe in We Are Who We Are, so che è un’attrice di grande spessore che mai e poi mai opterebbe per la banalità” afferma Guadagnino. “Si immerge completamente nel ruolo e scova preziosi elementi da riportare in superficie. In una scena, crea un qualcosa di veramente significativo”.

Russell ha amato osservare Sevigny all’opera. “La nostra scena insieme è davvero struggente, e io ero terrorizzata perché sapevo quanto fosse importante per il personaggio di Maren”, ricorda l’attrice. “Ma Chloe è talmente tranquilla e ti mette così a tuo agio che alla fine è successo tutto con la massima naturalezza. Mi piace vedere queste due generazioni di donne insieme, anche se l’unico contatto che possono avere le mette in pericolo”.

A seguire c’è Jessica Harper, la veterana che ha recitato nel remake di Suspiria ad opera di Guadagnino, la quale contribuisce a condurre Maren dalla madre. “La Jessica che conosco è stata completamente assorbita da questo personaggio”, commenta Guadagnino. “Impersona una donna che ha cercato di mettere da parte la tristezza del passato e non si aspetta che questa riaffiori”.
A completare il cast principale c’è André Holland, che abbiamo apprezzato in film emblematici del calibro di Moonlight e Selma - La strada per la libertà. “Ho avuto il piacere di lavorare con André per una pubblicità e ritengo sia un attore fantastico e un bell’uomo”, afferma Guadagnino. “In lui ho percepito tutta l’umanità di un padre che fa la difficile scelta di abbandonare la figlia perché non riesce a capire in che modo aiutarla. La sua presenza nel film porta una ventata di affetto e onestà, ed era fondamentale per poter comprendere Maren”.


Un’America da outsider: lo stile

Agli albori della carriera, Luca Guadagnino ha spesso tratto ispirazioni stilistiche dai suoi film preferiti. Da vero cinefilo, amava attingere alla sua conoscenza enciclopedica del canone cinematografico in modo spesso giocoso. Oggi, tuttavia, afferma che sia il paesaggio stesso a caratterizza in maniera più diretta le atmosfere visive. Quindi si è preparato per Bones and All mettendosi in cammino per un viaggio di un mese attraverso il Midwest, assimilandone gli sterminati orizzonti e la gentilezza dei suoi abitanti. È così che ha gettato le fondamenta dell’esperienza sensoriale del film. “Sono rimasto colpito dal meraviglioso orgoglio americano e dalla dignità delle sue genti, in special modo di coloro che sono stati consapevolmente lasciati indietro e che credono nei valori morali di questo Paese” dice il regista.

Il viaggio ha trasformato la visione di Guadagnino, che nel film ha cercato di tenere vivo e vivido questo punto di vista da ‘visitatore estasiato’. “Ho avuto l’impressione di avere davanti una forma più pura del Paese, che ha messo in discussione tutti i miei pregiudizi sugli Stati Uniti. Ho visto un luogo di contraddizioni affascinanti. Ho visto un’America in cui la possibilità di reinventarti è sempre presente ma dove, ciononostante, molti vengono lasciati indietro. Ho visto un luogo in grado di offrire grande ospitalità, generosità e apertura, ma anche isolamento”.

I contrasti sono anche visivi, cieli infiniti fanno da contraltare all’intimità di un terreno caratterizzato da molteplici sfaccettature, cosa che ha portato Guadagnino a decidere sin da subito che il film dovesse essere girato sulle stesse strade che percorrono Lee e Maren. “Ci siamo spostati con tutta la troupe nello stesso modo in cui i personaggi si spostano per l’America. Abbiamo girato in cinque Stati partendo dal Maryland e dirigendoci a Ovest verso l’Ohio, il Nebraska, l’Indiana e il Kentucky. Eravamo in costantemente in movimento e abbiamo girato interamente in location reali”.
Questa scelta ha avuto un notevole impatto sulle performance degli attori. Dice Chalamet: “Per quanto mi riguarda, da statunitense, è stato straordinario girare in questa parte del Paese, all’interno di vere fattorie in attività, su vere superstrade e in piccole cittadine laboriose. È un’esperienza che mi porterò dentro a lungo”.Taylor Russell aggiunge: “Mi hanno molto colpita questi spazi sconfinati e la sensazione sublime che ti pervade quando hai l’impressione di poter guidare all’infinito andando incontro a un tramonto perenne. Credo sia qualcosa che Maren si porti nel cuore”.

Guadagnino imposta sempre una grammatica visiva per i suoi film e, per in questo caso, la parola chiave dal punto di vista stilistico è stata coinvolgimento. Per assicurarsi che le immagini trasportassero gli spettatori dritti nel mondo di Maren, nel ritmo serrato della sua storia d’amore con Lee e nell’era del punk rock e di Ronald Reagan, il regista ha scelto un direttore della fotografia relativamente poco noto ma la cui fama è in ascesa. Si tratta di Arseni Khatchaturan, originario della Bielorussia, il cui amore per le texture grezze e per lo scolpire tramite la luce si è fatto evidente nei film dei registi georgiani Rati Oneli e Dea Kulumbegashvili.

Il rischio ne è valso la pena. “Mi piacciono i direttori della fotografia audaci che sfruttano l'arte intrinsecamente presente nei giochi di luci e ombre. Per essere così giovane, Arseni ha una grande padronanza della luce e una notevole capacità di forgiare le immagini”, dice Guadagnino. “A entrambi è piaciuta l’idea di girare gli anni ‘80 proprio come se fossimo negli anni ‘80, con una sorta di immediatezza e senza cadere nel nostalgico”.

I set, pressoché tutti reali, e i costumi sono stati utilizzati con il duplice fine di raccontare la storia e definire l’epoca in cui è ambientata. Guadagnino ha voluto con sé lo scenografo statunitense Elliot Hostetter, già occupatosi per il regista delle scenografie di We Are Who We Are. “Ho un rapporto di lungo corso con Elliot e mi ha veramente dato una mano a plasmare una visione dell’America che fosse autentica e non turistica”, afferma.

Per quanto riguarda i costumi, Guadagnino si è riunito con Giulia Piersanti per la loro quinta collaborazione. Ha immaginato gli outfit di Maren e Lee facendo presagire la moda grunge che sarebbe scoppiata di lì a poco, con quell’estetica oversize, sdrucita, androgina e decisamente da mercatino dell’usato. “Io e Giulia abbiamo pensato l’abbigliamento di Maren e Lee in un modo che riflettesse quelli che avrebbero potuto essere i loro idoli ma che già di suo fosse iconico”, dice Guadagnino. “Giulia è sempre capace di realizzare le mie idee nel migliore dei modi”.
In particolare, Piersanti e Chalamet partono da questo presupposto per l’abbigliamento di Lee. Stando a quanto afferma Chalamet: “Una parte delle idee alla base dell’abbigliamento di Lee è che sta sempre collezionando vari oggetti che sgraffigna alla gente per strada. Ma abbiamo anche deciso che si sarebbe tinto i capelli di rosso e che avrebbe avuto dei tatuaggi, per rendere l’idea di una persona vagamente scostante e ribelle ma che sta ancora cercando di capire chi vuole essere esattamente. Ho l’impressione che Lee sia quel tipo di persona che, con tutta probabilità, si guarda allo specchio e prova diverse ‘maschere’, diversi stili ed espressioni, per vedere quale si abbina meglio al modo in cui si sente”.

Il meticoloso lavoro della makeup artist Fernanda Perez e dell’hair designer Massimo Gattabrusi dà il tocco finale ai look, facendo risaltare il logorio della vita di strada. “Il loro lavoro eccezionale mostra come la vita da girovaghi si ripercuota sui volti e sulla pelle dei personaggi” afferma Guadagnino. “È stato tutto curato nei minimi dettagli e costituisce un ulteriore piano del racconto”.


Il rumore della strada

L’ultimo ed essenziale elemento del film che contribuisce a far immergere gli spettatori nella vita di strada – tanto entusiasmante quanto pericolosa – di Maren e Lee sono le sue musiche evocative. La colonna sonora parte con i Duran Duran, catapultandoci immediatamente nella camera di una teenager degli anni ‘80, e include brani di gruppi indie che hanno fatto la storia della musica dell’epoca, come i Joy Division e i New Order.

Per quanto riguarda la partitura, invece, Guadagnino ha optato per due musicisti formatisi successivamente e che di quelle band hanno subito il fascino e l’influenza, per poi sviluppare una loro personale e straordinaria capacità di sfruttare, da un punto di vista sonoro, il senso di solitudine e di urgenza. Stiamo parlando di Trent Reznor e Atticus Ross. Il duo è oggi famoso tanto per i Nine Inch Nails, il grintoso gruppo musicale industrial rock di cui fanno parte, quanto per le loro tracce evocative e visionarie, tra cui le colonne sonore di The Social Network e del film di animazione della Pixar Soul, entrambe premiate con l’Oscar.

“Sono i compositori più esperti della loro generazione” sostiene Guadagnino. “Nell’istante stesso in cui abbiamo iniziato a chiacchierare, ho trovato in loro due veri collaboratori, due anime delicate, aperte, generose”.

Guadagnino aveva solo un’idea di massima di ciò che voleva per questo film, e Reznor e Ross ci si sono buttati a capofitto. “Abbiamo parlato del fatto di trovare un sound che riflettesse il paesaggio statunitense e abbiamo individuato nella chitarra il suono americano per eccellenza” afferma il regista. “Avevo in testa quelle melodie semplici che si strimpellano alla chitarra davanti a un falò in mezzo al bosco. Trent e Atticus hanno accolto quel concetto e, alcune settimane dopo, sono tornati con delle tracce potenti, di una tenerezza e di una bellezza quasi disarmanti”.

E continua: “Dopodiché, hanno preso queste melodie meravigliose e le hanno inserite in un contesto sonoro che ha condotto il tutto a un livello ancora più forte e profondo. Lavorare con loro mi diverte un sacco perché ci mettono l’anima e sono sempre inclini a provare il contrario di quello che tutti si aspettano. Ad esempio, quando Lee confessa qualcosa di drammatico, la musica non è cupa bensì dolce e piena d’amore, il che ci porta a essere comprensivi nei suoi confronti. La visione morale del film sta in gran parte, secondo me, proprio nelle musiche di Trent e Atticus”.

È proprio l’apertura di Maren e Lee nei confronti l’uno dell’altra – e a dispetto dell’istinto che li porterebbe a scappare, a non fidarsi e a consumare coloro che amano – a diventare l’ultimo baluardo contro la solitudine. Guadagnino ritiene che si tratti di un anelito comune a tanti, che ognuno sperimenta a proprio modo, sebbene le vite di Maren e Lee siano rischiarate da un barlume di fiabesco iper-realismo.

“Spero che, in qualche modo, il film funga da specchio”, dice Guadagnino, “uno specchio che riflette sul perché ci sentiamo distanti gli uni dagli altri e sul perché, nonostante tutto, desideriamo far parte gli uni degli altri”.

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