Blair Witch: il sequel, uscito di "nascosto", del leggendario found footage
Blair Witch di Adam Wingard venne girato in segreto e uscì al cinema quasi a sorpresa, nel tentativo di replicare lo shock del primo film
Partiamo da un presupposto: se non avete amato The Blair Witch Project non c’è alcuna possibilità che Blair Witch vi piaccia. Zero, nada, nisba, non importa quanto vi possa affascinare la mitologia della strega di Blair o quanto apprezziate il soprannaturale e gli horror ambientati nei boschi: se fate parte di quella nutrita schiera di persone che non apprezzano quello che per comodità chiameremo semplicemene “found footage”, non sarà il film di Adam Wingard a farvi cambiare idea; se la camere a mano, le inquadrature ballerine e il tentativo di realismo spinto non sono pane per i vostri denti, girate pure alla larga da questo remake/sequel/reboot, che non è altro che The Blair Witch Project ripensato 17 anni, e svariati salti in avanti tecnologici, dopo. Se invece vi piace questo modo di fare horror che balla ai confini dell’anti-cinema e stravolge parecchie regole grammaticali di base del genere, e magari avete ignorato Blair Witch, qui proviamo a farvi cambiare idea, e a rimuovere definitivamente dalla memoria collettiva il ricordo dell’altro sequel Il libro segreto delle streghe.
LEGGI: Blair Witch, la recensione
LEGGI: Qual è la singola inquadratura di un film che ti terrorizzerà per sempre?
Blair Witch e le regole del found footage
Oltre a proporre un modo nuovo per produrre film horror – e non solo, pensate a Project X, ma non c’è dubbio che il grosso del found footage esista per fare paura –, The Blair Witch Project ne dettò anche, più o meno inconsciamente, le regole, e qui arriviamo al discorso dell’anti-cinema. Un found footage può, anzi deve, ignorare molta della grammatica di base dei film classici: innanzitutto, ogni singola inquadratura dev’essere giustificata diegeticamente, non può esistere solo perché è bella da vedere né può essere ricostruita ad arte perché è funzionale al racconto. Il ff deve simulare quello che tipicamente è il lavoro grezzo di una troupe d’assalto, oppure le riprese amatoriali di un gruppo di persone che vogliono immortalare le proprie vacanze; non c’è spazio per una regia vera e propria, se non si vuole correre il rischio di frantumare la sospensione dell’incredulità, e gli angoli di visione a disposizione di chi dirige coincidono con quelli dei personaggi – nessuno sguardo esterno e onnisciente. O per dirla più brevemente, un found footage è tanto meno efficace quanto più è bello da vedere.
The Blair Witch Project seguiva alla lettera queste regole (meglio del 99% dei suoi successori), e Blair Witch fa altrettanto, ed è il motivo per cui è così facile capire se il film interessa o meno. Il segreto del successo di TBWP, però, stava anche nel fatto che queste regole venivano per la prima volta teorizzate e applicate un film, e scoprirle era parte integrante del fascino del progetto. Più in generale, Project funzionava perché era una sorpresa, e non parliamo solo della campagna di marketing che lo spacciava come vero found footage (il passo successivo rispetto a “tratto da una storia vera”), ma anche perché era la prima apparizione di fronte a una platea internazionale di questo modo nuovo di girare film horror che stravolgeva ogni preconcetto e costruiva la tensione con strumenti originali e tutti da scoprire. Blair Witch ha un enorme problema a riguardo, come già scrivevamo nella nostra recensione: l’effetto sorpresa non colpisce mai due volte.
Novità vs. perfezionamento
A dirla tutta, Lionsgate ci provò anche a replicare l’effetto dell’uscita di The Blair Witch Project. Dopo l’insuccesso (diciamo così) di Il libro segreto delle streghe, un mediocre horror che funzionava da meta-sequel e vedeva come protagonisti un gruppo di fan del film di Daniel Myrick and Eduardo Sánchez, la produzione di Blair Witch venne tenuta accuratamente segreta, perché, come spiegato dallo sceneggiatore Simon Barrett, “tutte le volte che viene annunciato un sequel o un reboot c’è una reazione negativa forte e spontanea” – in altre parole, Blair Witch venne girato con il titolo The Woods per evitare le shitstorm su Internet. Non solo: il film venne presentato in anteprima al Comic-Con del 2016 sempre con il titolo The Woods, e le prime persone (cast, crew e produzione a parte) a scoprire che si trattava in realtà di un altro Blair Witch furono quelle presenti quel giorno a San Diego.
Il problema di questa strategia è che è intelligente e meritevole di approfondimenti su Internet, ma ha a che fare con sorprese para-cinematografiche (“esce il sequel del famoso horror...”), non con il contenuto del film, come invece valeva per The Blair Witch Project. Il bello è che la cosa ci importa poco, perché impossibilitato a stupire il pubblico come avevano fatto Myrick e Sanchez, Wingard sceglie invece la strada dell’omaggio, dell’affettuoso ricalco, ma anche dell’aggiornamento e dell’allargamento degli orizzonti: Blair Witch è un film concepito da qualcuno che ama molto non solo l’originale, ma tutta la mitologia (o la lore, se preferite) che quel film si limitava a suggerire, e che vuole assolutamente espanderla perché ha grandi idee a riguardo. Il film è quindi in parte un remake beat per beat dell’originale, ma la sua storia esiste in un mondo in cui la strega di Blair e la scomparsa di Heather Donahue sono fatti reali, non finzione cinematografica, ed è quindi una scusa per tornare a visitare i boschi di Burkittsville e raccontare più nel dettaglio che cosa vi succede di così tremendo.
Il risultato è un film con meno personalità dell’originale – i personaggi raddoppiano numericamente e hanno quindi meno tempo per elevarsi al di sopra del ruolo standard che viene loro attribuito nella cornice di un film horror – ma con molta più storia, un film che parla del passato più di quanto parli del presente e che quindi approfondisce ed esplora con più attenzione uno dei macrotemi di The Blair Witch Project, e cioè “come nasce una leggenda? Cosa c’è alle radici del folklore?”. Questo allargamento del campo visivo è facilitato anche dal fatto che il film è del 2016 e non del 1999: invece di un paio di cineprese scrause, Wingard mette in mano alle sue vittime sacrificali un arsenale di strumenti di ogni tipo, camere notturne ad alta definizione, droni, GoPro miniaturizzate che si appoggiano dietro l’orecchio, e si costruisce così uno spazio espressivo decisamente più ampio di quello che avevano a disposizione Myrick e Sanchez.
Per ogni scena esistono così sempre cinque o sei punti di vista diversi, che siano le camere a mano o quelle appoggiate su un albero vicino alle tende, e questo permette a Wingard di giocare con le inquadrature e anche con il montaggio (se hai due personaggi che stanno parlando e tutti e due hanno una microcamera dietro l’orecchio puoi affidarti al campo-controcampo, per esempio). Formalmente, stilisticamente, Blair Witch è un found footage inattaccabile e una replica perfetta di quello che sarebbe stato The Blair Witch Project se fosse uscito nel 2016. Rimangono dubbi su alcune scelte creative fatte da Wingard e Barrett sul finale, ma decidere se siano geniali o di pessimo gusto è una questione soggettiva e lasciamo a voi ogni valutazione, se doveste decidere di recuperare questo sequel che forse nessuno voleva ma che a posteriori siamo felici che esista.