Black Panther: Wakanda Forever è un film in cui il silenzio conta più delle esplosioni
Le parti più riuscite di Black Panther: Wakanda Forever sono quelle che, negli altri cinecomic, sono trattate come passaggi senza enfasi
Nessun genere cinematografico è vittima delle aspettative come il cinecomic. Dopo ormai una ventina d’anni di produzioni di serie a che hanno tenuto banco al box office il pubblico chiede di vedere qualcosa di diverso. Quando qualcosa di diverso arriva, il più delle volte appare stonato. Un errore di forma, un tradimento del linguaggio ormai troppo codificato, un fallimento nel raggiungere le emozioni attese. Black Panther: Wakanda Forever prova a fare la stessa cosa. E nel farlo rischia molto. Sposta le emozioni in punti insoliti, cura moltissimo i momenti generalmente più trascurati dagli altri film e passa alla svelta su quelli ritenuti fondamentali.
Il titolo Black Panther: Wakanda Forever è un astuto inganno
Sia Black Panther che Wakanda Forever sono due promesse volutamente non mantenute. Sono la scommessa su cui si gioca la riuscita del film. La sua originalità. Ovvero costruire la portata drammatica proprio sull’assenza dell’eroe che dà il nome alla serie (Black Panther). Stravolgere completamente il grido di battaglia (Wakanda Forever) rendendolo alla pari di quello dei villain.
Shuri diventa protettrice del Wakanda per necessità, non per merito. È creata in laboratorio: sintetizza la formula, ne assume i poteri senza controbilanciarli con il peso della responsabilità del trono. Ingaggia così una battaglia insensata contro il regno di Talokan, guidata da una voglia di vendetta che la Marvel da sempre indica come contraria al bene. Era accaduto con Civil War, in cui Tony Stark si tramutava nel finale in una forza distruttrice. In parte anche Peter Parker di Spider-Man: No Way Home ha dovuto decidere di fare un passo indietro rispetto al desiderio di rivalsa e risparmiare il suo nemico.
La crisi filosofica degli eroi che si è espressa a partire dalla fase tre della Marvel, non è mai stata radicale come in Black Panther: Wakanda Forever. Sta qui il secondo tradimento rispetto alle attese: il grido che accomuna la nazione, e gli spettatori, perde il suo valore di esaltante rivalsa. Un tempo era segno di libertà, di resistenza, con Shuri diventa l’invocazione di uno sterminio.
Il grido Wakanda Forever tradisce poi l’eredità politica di T’Challa. Riporta cioè a una dimensione nazionalista di difesa dei confini, dei territori e delle risorse.
Una resa dei conti senza soddisfazione
Così nel climax del film, in quella che per convenzione dovrebbe essere la scena madre in cui si sfoga tutta la tensione accumulata da un ritmo piuttosto lento e funereo, non è data alcuna soddisfazione allo spettatore. Chi è entrato in empatia con il film si trova a vivere senza esaltazione la sconfitta di Namor. Un cammino verso la vittoria di Shuri che a ogni passo appare come una sconfitta della nazione pensata da T’Challa. Era ingenuo e sognatore, gli dicevano, quando decise di aprirsi alla globalità. Ora il popolo senza guida ritorna sui suoi passi. Protegge il potere, richiude i confini se non per potersi espandere territorialmente. Tra Namor e Shuri c’è una distanza geografica, non ideologica. Anche se loro si raccontarno il contrario.
Una bella sfida per Black Panther: Wakanda Forever mettere in scena uno stravolgimento così radicale della nazione buona per eccellenza nell’MCU. Quella da cui tutti sono andati quando c’era da imbastire l’ultima difesa della terra e che ora quella stessa terra, per un attimo, ha pensato di conquistarla interamente.
Quello che conta è fare pace con il dolore
Ryan Coogler sposta allora il focus e lo mette sul dolore. Il terzo atto non è il culmine, è un passaggio. Il vero finale sta altrove. Black Panther: Wakanda Forever parla di nazioni vittime del loro dolore collettivo, di regnanti inquieti che mettono il peso della loro sofferenza sul popolo. Il film ci propone il distacco, non l’empatia. Insolito per un cinecomic.
Per una volta i personaggi positivi sono quelli che hanno il paradossale coraggio di non scendere in battaglia. L’unica che lo fa è regina Ramonda. La sovrana cerca di guidare il popolo all’accettazione del lutto. Lei è la vera protagonista. Per questo le sue lacrime sono importantissime e la sua morte spegne il film.
Scopriamo che, secondo la tradizione Wakandiana (che è un regno di finzione, è bene ricordarlo, sebbene creato da un collage di culture africane) il funerale è una festa con balli e danze. I Marvel Studios hanno immaginato un modo di celebrare i defunti opposto a quello occidentale. Noi ci vestiamo di nero, loro di bianco. Noi piangiamo, loro saltano e ballano. Shuri invece riceve la morte del fratello nel modo americano. Ricerca il progresso tecnologico, rifiuta la tradizione e le credenze. Ragiona come i Vendicatori. “Se non possiamo evitare che qualcosa succeda, troveremo un modo per aggiustare quello che è successo”.
Il film è costruito per arrivare all’ultimo fotogramma con il colpo più forte
Ramonda invece piange. Lo fa in pubblico. Cerca di insegnare agli altri a farlo. Shuri lo fa solo alla fine. Piangere significa accettare la sconfitta, ritornare umani feriti, e questo è un modo per andare avanti. Così Black Panther: Wakanda Forever affida il suo finale proprio all’ultimo istante dell’opera, alla portata simbolica di un vestito funebre gettato nel fuoco. E nel silenzio.
Nelle saghe dell’MCU ogni capitolo deve aggiungere qualcosa all’altro. Più spettacolare, più intrecci, più storie. Questo sequel rispetta la formula: è una storia globale, fotografata meglio, con effetti speciali migliori e molto più lunga. Però poi narrativamente lavora in sottrazione. La musica di Ludwig Göransson accompagna tutti i momenti obbligatori dei cinecomics: battaglie e reveal. Il silenzio quelli più importanti.
Chi l’avrebbe detto che l’emozione principale sarebbe venuta dai momenti più piccoli. Una regina senza corona che parla con la figlia nella notte. Un sovrano che osserva il sole della propria città immersa nel buio delle profondità. Lo sguardo curioso dei giovani di Talokan verso la straniera che è arrivata in città. Loro, con la pelle blu, guardano lei, con la pelle nera come un’aliena (forse in quel momento Shuri si è sentita un po’ colonizzatrice bianca). E gli assordanti silenzi.
Il logo Marvel arriva con un minuto di silenzio per il suo attore scomparso. Imposta così il linguaggio emotivo di tutto il film. Insolito per un cinecomic, un genere che flirta con il melodramma e la soap opera. Chi legge i fumetti sa bene che il finale post credit è perfettamente in linea con la struttura senza fine degli archi narrativi. La vita ricomincia sempre nei fumetti.
Ryan Coogler fa una scelta ben precisa di regia. Nei momenti in cui la musica sarebbe salita indicando esattamente l’emozione da provare (come nel funerale del già citato Avengers: Endgame), lui la toglie. Lascia che lo spettatore provi quello che vuole. Si può piangere, ma non c’è una retorica che ci obbliga a farlo. Si può anche essere felici. La chiusura, tutto sommato, è particolarmente serena e ottimista. Si può anche pensare ad altro, scollegarsi lentamente dalla storia mentre le note di Rihanna accompagnano i titoli di coda.
È così che si processa un dolore. Ognuno a modo proprio. Senza clamore. In silenzio.
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