Black Mirror: come la terza stagione ha rielaborato i generi

Con la terza stagione di Black Mirror, il creatore Charlie Brooker sembra aver tentato un'analisi critica e uno stravolgimento dei generi tradizionali del cinema hollywoodiano

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Era il 4 dicembre 2011. Quel giorno, in un gioco di riflessi che avrebbe emozionato Escher, gli occhi dei telespettatori britannici osservavano, sul piccolo schermo, gli occhi di fittizi telespettatori britannici osservare il Primo Ministro, interpretato magistralmente da Rory Kinnear, intento alla drammatica, forzata copula con un maiale. Sono passati quasi cinque anni, e da allora Black Mirror, serie creata dal geniale Charlie Brooker, non ha mai mancato di scardinare le aspettative del pubblico, in termini di tematica e di coraggio nell'esporre le pieghe (e piaghe) più raccapriccianti dell'animo umano. Il tutto, va detto, al di fuori della cornice di un genere preciso, almeno fino all'esordio della terza, corposa stagione, che ha debuttato lo scorso 21 ottobre su Netflix.

Oltre a una generale moderazione del cinismo che aveva costituito il fil rouge delle prime due stagioni, gli ultimi sei episodi diffusi dimostrano una più marcata aderenza ai generi tradizionali della narrativa cinematografica (prima ancora che televisiva). La prima puntata, Nosedive, presenta da subito i toni pastello di una commedia americana dal sapore retrò, pur inserendo immediatamente l'elemento alienante della recensione, tramite telefono, di tutti i comportamenti umani. La protagonista, Lacey, sembra inseguire l'ideale di perfezione rappresentato dalle cinque stelline di valutazione e incarnato dall'amica d'infanzia Naomi.

Il viaggio su strada disseminato d'inconvenienti, tanto quanto l'espediente del matrimonio come set ideale per la scena madre della sfuriata di Lacey, rimandano a un'idea di cinema "leggero", alle commedie sentimentali che spesso hanno allietato le nostre serate in famiglia; ma Black Mirror non si adagia sul pedissequo ricalco di un modello trito e ritrito, enfatizzando grazie al contesto patinato del matrimonio di Naomi l'agghiacciante falsità di questo futuro prossimo; in questo senso, la classica parabola di metamorfosi della protagonista assume un valore satirico fortissimo, in una sorta di inversione del tradizionale iter da brutto anatroccolo a cigno, almeno all'apparenza. Lo strumento della commedia viene saggiamente utilizzato, in Nosedive, per esporre l'inconsistenza del cliché e la trappola dell'estetica.

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Ancora più evidente è la rielaborazione del genere horror nel secondo episodio, Playtest, che vede il giovane americano Cooper intraprendere un viaggio che lo porta a Londra e, in seguito, in un misterioso maniero sede di un rivoluzionario progetto di videogame. L'episodio è un gioco di scatole che rimanda a una precedente, perturbante puntata di Black Mirror, lo speciale White Christmas, che nascondeva al proprio interno vari livelli di realtà, grazie all'ausilio della tecnologia. L'orrore evocato nel tradizionalissimo scenario della casa gotica è, viene detto da subito, virtuale. Abbiamo quindi un primo livello di irrealtà, cui ne seguono molti altri, come matrioske che riportano, infine, al macrocontenitore: tutto ciò che abbiamo visto è stato il frutto di un collasso cerebrale del protagonista.

In un acuto capovolgimento dei punti chiave del cinema horror, Playtest fa inorridire lo spettatore di fronte al nulla, a quel mezzo secondo in cui il cervello di Cooper ha dato fondo a tutti i propri timori più reconditi, smascherando non solo la gelida - e terrificante, sì - semplicità della morte, ma anche la superficialità sempliciotta di tutti i luoghi comuni della grammatica della paura. Un losco figuro immobile, un quadro che muta forma, rumori improvvisi, un gigantesco ragno antropomorfo; nulla ci agghiaccia quanto l'immagine di Cooper morto in una stanza bianca, seduto su una comoda poltrona, a causa di una banalissima interferenza del telefonino.

Discorso a parte andrebbe fatto per Shut Up and Dance, il più desolato e cattivo tra i sei episodi della terza stagione, nonché il più in linea con lo spirito originario di Black Mirror, tanto da poter essere tranquillamente accostato alla scarna crudezza delle prime due stagioni. Quasi a ricordare la natura primaria della serie BBC, Charlie Brooker trasvola i generi ancora una volta, tessendo un racconto che mescola riso, dolore e terrore con un dosaggio misurato e, proprio per questo, di straordinaria efficacia.

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In aperta opposizione al precedente episodio, San Junipero è un caso anomalo all'interno dell'intera serie di Black Mirror e al nichilismo in essa imperante. Da subito ammiccante nei confronti dei nostalgici degli anni '80, l'episodio non perde mai la propria delicatezza sentimentale, tipica dei drammi romantici che hanno fatto piangere tanto i nostri genitori quanto noi. Nemmeno nei momenti più tragici, San Junipero cede il passo al tono tipico di Black Mirror, confermandosi fino alla fine una perla rara per sensibilità e, in fin dei conti, ottimismo nei confronti dell'amore come strumento di salvezza. Tuttavia, anche qui Brooker è riuscito a lasciare un'impronta che fa riflettere: la storia d'amore più sana di tutta la serie ha come protagoniste due donne, in uno stravolgimento del cliché eterosessuale che è reso ancor più marcato dall'ambientazione anni '80. Un piccolo, grande tocco di classe.

Spietato e polveroso come il cinema di guerra che si prefigge di ridipingere è Men Against Fire, episodio realistico e cruento fino all'estremo nel raffigurare lo scontro tra le truppe regolari e la resistenza dei mostruosi roaches, che si riveleranno essere semplicemente umani "inferiori" e non degni di sopravvivere alla purga eugenetica operata tramite lo sterminio militare. La de-umanizzazione dell'avversario, da sempre alla base della tattica bellica, viene qui portata all'estremo, riuscendo a tramutare il relativismo buonista di molti film di guerra degli ultimi anni in una riflessione profonda e sofferta, più efficace di qualsiasi cerchiobottismo e autenticamente pacifista, specialmente nel desolante epilogo che vede il protagonista optare per la cancellazione del ricordo delle proprie azioni efferate e, quindi, per l'azzeramento della sua coscienza di umano, onde essere reinserito in un universo che solo la realtà virtuale gli dipinge accettabile. La realtà, suggerisce Brooker, va verso la rovina; l'illusione è l'unica, mostruosa salvezza che resta.

Conclude la stagione quello che è il più classico tra i sei episodi, Hated in the Nation. Il genere poliziesco viene, ancora una volta, sovvertito dalla base, ponendo due donne a capo delle indagini sui misteriosi omicidi che si susseguono in Gran Bretagna a seguito del lancio di un pericoloso hashtag su Twitter. Per quanto possa sembrare marginale, la discriminazione sessuale è tuttora fortissima nella scrittura cinematografica e televisiva di alcuni specifici tipi di storie; il che risulta ancor più paradossale se si pensa alle eroine memorabili che gli ultimi decenni ci hanno regalato, da Ellen Ripley a Clarice Starling, passando per le varie Katniss e Lara Croft.

Le due splendide protagoniste della puntata instaurano il corrispettivo femminile della cameratesca complicità che ha spesso calamitato l'attenzione del pubblico nelle serie poliziesche, ma la rielaborazione del genere non si ferma certo qui: in antitesi rispetto ai canoni investigativi, ogni progresso nell'indagine compiuto dai personaggi è un passo in più verso la rovina. La spaventosa ecatombe, solo in parte stemperata dal finale aperto, è il sigillo della sovversione compiuta da Black Mirror in questa stagione che, guardata a una certa distanza, appare davvero come un mosaico sapientemente deformato della cinematografia tradizionale, rinnovato da uno smalto amaro e spietato che, ancora una volta, si riconferma l'anima migliore della serie di Charles Brooker.

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