Black Mirror: come la terza stagione ha rielaborato i generi
Con la terza stagione di Black Mirror, il creatore Charlie Brooker sembra aver tentato un'analisi critica e uno stravolgimento dei generi tradizionali del cinema hollywoodiano
Oltre a una generale moderazione del cinismo che aveva costituito il fil rouge delle prime due stagioni, gli ultimi sei episodi diffusi dimostrano una più marcata aderenza ai generi tradizionali della narrativa cinematografica (prima ancora che televisiva). La prima puntata, Nosedive, presenta da subito i toni pastello di una commedia americana dal sapore retrò, pur inserendo immediatamente l'elemento alienante della recensione, tramite telefono, di tutti i comportamenti umani. La protagonista, Lacey, sembra inseguire l'ideale di perfezione rappresentato dalle cinque stelline di valutazione e incarnato dall'amica d'infanzia Naomi.
Ancora più evidente è la rielaborazione del genere horror nel secondo episodio, Playtest, che vede il giovane americano Cooper intraprendere un viaggio che lo porta a Londra e, in seguito, in un misterioso maniero sede di un rivoluzionario progetto di videogame. L'episodio è un gioco di scatole che rimanda a una precedente, perturbante puntata di Black Mirror, lo speciale White Christmas, che nascondeva al proprio interno vari livelli di realtà, grazie all'ausilio della tecnologia. L'orrore evocato nel tradizionalissimo scenario della casa gotica è, viene detto da subito, virtuale. Abbiamo quindi un primo livello di irrealtà, cui ne seguono molti altri, come matrioske che riportano, infine, al macrocontenitore: tutto ciò che abbiamo visto è stato il frutto di un collasso cerebrale del protagonista.
Discorso a parte andrebbe fatto per Shut Up and Dance, il più desolato e cattivo tra i sei episodi della terza stagione, nonché il più in linea con lo spirito originario di Black Mirror, tanto da poter essere tranquillamente accostato alla scarna crudezza delle prime due stagioni. Quasi a ricordare la natura primaria della serie BBC, Charlie Brooker trasvola i generi ancora una volta, tessendo un racconto che mescola riso, dolore e terrore con un dosaggio misurato e, proprio per questo, di straordinaria efficacia.
In aperta opposizione al precedente episodio, San Junipero è un caso anomalo all'interno dell'intera serie di Black Mirror e al nichilismo in essa imperante. Da subito ammiccante nei confronti dei nostalgici degli anni '80, l'episodio non perde mai la propria delicatezza sentimentale, tipica dei drammi romantici che hanno fatto piangere tanto i nostri genitori quanto noi. Nemmeno nei momenti più tragici, San Junipero cede il passo al tono tipico di Black Mirror, confermandosi fino alla fine una perla rara per sensibilità e, in fin dei conti, ottimismo nei confronti dell'amore come strumento di salvezza. Tuttavia, anche qui Brooker è riuscito a lasciare un'impronta che fa riflettere: la storia d'amore più sana di tutta la serie ha come protagoniste due donne, in uno stravolgimento del cliché eterosessuale che è reso ancor più marcato dall'ambientazione anni '80. Un piccolo, grande tocco di classe.
Spietato e polveroso come il cinema di guerra che si prefigge di ridipingere è Men Against Fire, episodio realistico e cruento fino all'estremo nel raffigurare lo scontro tra le truppe regolari e la resistenza dei mostruosi roaches, che si riveleranno essere semplicemente umani "inferiori" e non degni di sopravvivere alla purga eugenetica operata tramite lo sterminio militare. La de-umanizzazione dell'avversario, da sempre alla base della tattica bellica, viene qui portata all'estremo, riuscendo a tramutare il relativismo buonista di molti film di guerra degli ultimi anni in una riflessione profonda e sofferta, più efficace di qualsiasi cerchiobottismo e autenticamente pacifista, specialmente nel desolante epilogo che vede il protagonista optare per la cancellazione del ricordo delle proprie azioni efferate e, quindi, per l'azzeramento della sua coscienza di umano, onde essere reinserito in un universo che solo la realtà virtuale gli dipinge accettabile. La realtà, suggerisce Brooker, va verso la rovina; l'illusione è l'unica, mostruosa salvezza che resta.
Conclude la stagione quello che è il più classico tra i sei episodi, Hated in the Nation. Il genere poliziesco viene, ancora una volta, sovvertito dalla base, ponendo due donne a capo delle indagini sui misteriosi omicidi che si susseguono in Gran Bretagna a seguito del lancio di un pericoloso hashtag su Twitter. Per quanto possa sembrare marginale, la discriminazione sessuale è tuttora fortissima nella scrittura cinematografica e televisiva di alcuni specifici tipi di storie; il che risulta ancor più paradossale se si pensa alle eroine memorabili che gli ultimi decenni ci hanno regalato, da Ellen Ripley a Clarice Starling, passando per le varie Katniss e Lara Croft.
Le due splendide protagoniste della puntata instaurano il corrispettivo femminile della cameratesca complicità che ha spesso calamitato l'attenzione del pubblico nelle serie poliziesche, ma la rielaborazione del genere non si ferma certo qui: in antitesi rispetto ai canoni investigativi, ogni progresso nell'indagine compiuto dai personaggi è un passo in più verso la rovina. La spaventosa ecatombe, solo in parte stemperata dal finale aperto, è il sigillo della sovversione compiuta da Black Mirror in questa stagione che, guardata a una certa distanza, appare davvero come un mosaico sapientemente deformato della cinematografia tradizionale, rinnovato da uno smalto amaro e spietato che, ancora una volta, si riconferma l'anima migliore della serie di Charles Brooker.