Bernardo Bertolucci non era uno. Erano mille

Il cineasta italiano di maggiore successo di sempre, il più completo inarrivabile e complicato. Bernardo Bertolucci è stato un artista del '900 italiano che si è contornato di artisti

Critico e giornalista cinematografico


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Ci sono registi che non possono fare a meno di pensare piccolo e raccontare sempre e comunque storie intime e altri che, qualsiasi cosa girino, non possono che pensare in grande.

Bertolucci apparteneva alla seconda categoria.

Non ci apparteneva fin dal suo esordio, La Comare Secca (all’incredibile età di 22 anni su sceneggiatura di Pasolini che aveva conosciuto in quanto amico del padre, il poeta Attilio Bertolucci), ma è stata una mentalità che ha maturato nel corso della sua carriera trovando l’unica strada italiana mai creata che collegasse il cinema d’autore al blockbuster, gli incassi e la ricerca. Il cinema titanico che sogna di conquistare il mondo facendo lavorare i più grandi artisti in assoluto.

Gli ci sono voluti diversi film per arrivare a Il Conformista, l’opera che gli ha aperto definitivamente le porte del cinema mondiale, consentendogli di arrivare di lì a poco più di una decina d’anni a quello che lui stesso definiva un delirio di onnipotenza, film pazzeschi per ambizione e potenza produttiva come Ultimo Tango a Parigi, Novecento, Il Tè Nel Deserto e ovviamente L’Ultimo Imperatore.
Figlio dell’élite intellettuale Bertolucci aveva i mezzi formativi e didattici per essere un artista ma anche una tempra e una forza fisica che gli hanno consentito di essere cineasta di kolossal d’autore.

Il gusto incredibile che lo portò a trovare collaboratori fondamentali (Storaro) è lo stesso che ha fatto sì che potesse tenerseli stretti. È stato il primo a valorizzare Francis Bacon, a capire profondamente come la musica di Ryuichi Sakamoto potesse reggere un intero film e a creare una dimensione per il cinema che non dovesse scegliere tra realismo e sogno felliniano ma poteva muoversi a livello di astrazione. Era stato pupillo di Pasolini, aveva capito il genio di Storaro e ha collaborato e valorizzato quello che probabilmente è stato il più grande montatore e sceneggiatore italiano, Franco Arcalli.

I film di Bertolucci non erano mai pienamente realistici, pur non lavorando sul fantastico partivano da intrecci concreti e finivano per cercare prima le immagini della coerenza o della plausibilità. Non conta molto come mai Marlon Brando insegua con foga e con violenza Maria Schneider nel finale di Ultimo Tango a Parigi o perché lei si senta così minacciata da sparare, conta quel senso perduto e disperato di solitudine che traspira dai loro gesti. Non conta tanto come mai John Malkovich muoia in Il Tè Nel Deserto ma come lo faccia, immerso in quelle dune afose al termine di quel percorso.

Innamoratissimo degli incassi e determinato ad avere successo, staccare biglietti e trovare un pubblico, Bernardo Bertolucci ha cercato in ognuna delle sue molte fasi di fare il cinema d’autore più commerciale possibile.

Spesso riuscendoci.

Eppure quella battuta da Bertolucci è stata una strada così complessa, inusuale e non particolarmente celebrata nel nostro paese che ad oggi non c’è nessuno che ripeta il suo percorso. Nonostante parliamo del cineasta italiano più di successo di sempre, in qualsiasi dimensione, nessuno, se non forse Luca Guadagnino, oggi sembra guardare a Bertolucci. Nemmeno Tornatore che pure ha lavorato molto a livello internazionale, è stato autore di kolossal intellettuali come lui.

Ci sono stati tantissimi Bertolucci: quello rivoluzionario e giovane, fissato con la nouvelle vague, quello idealista degli anni ‘70, quello politico, quello avventuriero in terre remote degli anni ‘80, lo spiritualista dei ‘90 e l’audace politico che convince il regime cinese a fargli girare dentro la città perduta una storia tutta loro e ancora quello più anziano e dimesso ma mai banale che premia Sacro Gra al festival di Venezia e gira Io e Te o quello post-Novecento, potentissimo con stivaloni da cowboy e il mondo del cinema ai suoi piedi. Non era mai simile a sé, sempre in evoluzione, desiderando avere sempre di più, fare film sempre più grandi fino a toccare la vetta e scegliere di tornare a storie intime di ragazzi e ragazze con un’esperienza talmente gigante che una villa in campagna, un palazzo a Roma o un appartamento a Parigi sembrassero paesaggi vastissimi.

Appartenente a quella generazione per la quale la cinefilia era una religione (come racconta in The Dreamers) e vedeva tutto. I film di supereroi come la serie 24. Certo era evidentemente snob nei gusti e non riteneva sicuramente tutto al medesimo livello, ma aveva un’insaziabile sete di immagini che per decenni ha fatto il paio con una voglia quasi militare di produrne di sempre più grandi, sempre più immense, stupefacenti e clamorose.
Un vero artista arrivato a padroneggiare budget elevatissimi, libero di creare ai massimi livelli.

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