Benigni e la maledizione di Pinocchio: la storia di un’odissea critica

La maledizione di Pinocchio nel film di Benigni, tra la distruzione della critica americana e la sorpresa di quella italiana

Condividi

Benigni e la maledizione di Pinocchio: la storia di un’odissea critica

“Roberto Benigni fa ampiamente cilecca con questo adattamento di Pinocchio, e il risultato è un per niente divertente, mal fatto e raccapricciante progetto di vanità”. Questa è la descrizione che RottenTomatoes presenta nella scheda dedicata al film Pinocchio (2002), scritto da Roberto Benigni con Vincenzo Cerami e diretto e interpretato dallo stesso Benigni. Eletto al terzo posto dell’infame classifica dei “Peggiori film della decade 2000-2009” (preceduto solo dal film action Ballistic: Ecks vs. Sever (2002) diretto dal thailandese Wych Kaosayananda con Antonio Banders e Lucy Liu e da One Missed Call (2008), remake americano di Eric Valette di un horror di Takeshi Miike), il kolossal di Benigni – perché di kolossal si parla, visto che all’epoca fu il film italiano più costoso di sempre, con un budget di circa 40 milioni di euro – non è stato risparmiato nemmeno dalla classifica generale RT dei “Peggiori film di sempre”, in cui l’unico primato che il film malauguratamente potrebbe vantare è quello di essere la sola pellicola italiana ad avere lo 0% di consenso critico (su 55 recensioni).

Insomma, se dovessimo fidarci soltanto delle classifiche sarebbe già un vero disastro.

Ma facciamo un passo indietro.

Siamo nel pieno delle vacanze natalizie del 2002, e quando Pinocchio viene distribuito negli Stati Uniti a dividere gli incassi del box office ci sono due film non proprio privi di attrattiva: il secondo capitolo de Il signori degli anelli, ovvero Il signore degli anelli - Le due torri di Peter Jackson (che a fine corsa incassò 339 milioni) e Prova a prendermi di Steven Spielberg (164 milioni). Due superproduzioni dal richiamo commerciale così forte che in confronto quei 40 milioni potevano sembrare noccioline. E i tre Oscar che La vita è bella aveva vinto nel 1999 – seppur tra reazioni contrastanti – nemmeno quelli furono d’aiuto? A vedere il responso del pubblico e della critica, erano semplicemente dei graziosi soprammobili. Perché nonostante i grandi incassi del suo film precedente, Benigni negli Stati Uniti dovette fronteggiare non solo il deserto dei biglietti staccati, con poco più di 3 milioni e mezzo di dollari di incasso, ma anche una feroce distruzione critica che oggi farebbe forse impallidire anche il tanto deriso Cats di Tom Hooper.

Ma da cosa fu causato tanto malumore?

Per prima cosa: dal doppiaggio. Prodotto dalla Melampo cinematografica, ovvero la casa di produzione di Benigni e Nicoletta Braschi (che aveva prodotto anche La vita è bella) insieme alla Cecchi Gori Group, Pinocchio fu distribuito nelle sale americane dalla Miramax di Harvey e Bob Weinstein senza nessuna anteprima per la stampa, a loro detta per il poco tempo che avevano avuto per curare il doppiaggio inglese. E che cura: apriti cielo. Fu proprio il doppiaggio grezzo e frettoloso che in primis fece sbuffare i critici. Come Elvis Mitchell del New York Times, il quale, in una recensione dal sarcasmo brutale scrisse che la decisione di usare Breckin Meyer come doppiatore di Benigni (mentre la Braschi era doppiata da Glenn Close)

[…] dà l’impressione che il signor Meyer sia nella cabina di proiezione a leggere il copione. Ciò è da tenere conto nella qualità dei voice over, così sciatti da dare l’impressione di stare guardando un film d’azione di Hong Kong del 1978: le bocche doppiate degli attori italiani forse si muovo ancora un’ora dopo che il film è finito. C’è stata così tanta fretta nel portare le copie al cinema per l’apertura nazionale che nessuno si è preoccupato di controllare la sincronizzazione. È come se qualcuno cercasse di colpire un bersaglio con un barattolo di vernice.

Accortisi dell’enorme gaffe, i distributori decisero di proporre dal 7 febbraio 2003, per un periodo limitato, una versione in lingua originale sottotitolata in inglese. Ma tre mesi dopo sarebbe stato decisamente troppo tardi per salvare Pinocchio. Perché, oltre al doppiaggio, c’era un altro ostacolo che i critici americani proprio non riuscivano ad affrontare. Ovvero il problema della sospensione dell’incredulità rispetto a un Pinocchio interpretato da un adulto: “l’idea di un bambino come un quarantenne con la stempiatura, il cerone sulla faccia e la rasatura del giorno dopo”, nelle parole del critico del New York Times, che rende Pinocchio “credibile come Diana Ross che interpreta Dorothy in I’m magic o Matthew McConaughey che fa lo studente universitario in Contact”.

La stessa identica critica fu mossa da Jay Boyar del Baltimore Sun, per cui

E' difficile accettare nei panni di un bambino un uomo di 50 anni che non fa niente per nascondere la calvizie e la sua statura. Ed è difficile anche accettare che sia un burattino. Non c'è niente che somigli a un burattino nell'apparenza o nel modo in cui Benigni si muove.

Molto probabilmente né Mitchell né Boyar avevano visto il Pinocchio di Carmelo Bene del 1961, e ancora meno verosimilmente quello del 1911 con Ferdinand Guillaume detto ‘Polidor’ (il primo Pinocchio cinematografico) dove il burattino era interpretato da un adulto. Ma anche se fosse, il precedente non avrebbe retto in nessun modo contro un giudizio intransigente che, nelle parole di Mitchell, definisce Pinocchio “un film così brutto che entra nel pantheon dei relitti assieme a Battleship Earth e Showgirls”, un film talmente assurdo che “Bin Laden potrebbe assistere a una proiezione a Times Square ed essere sicuro di passare inosservato”.

Nemmeno Kevin Thomas del Los Angeles Times fece tanti complimenti. Ancora il doppiaggio fu l’ostacolo più grande di tutti (“la traccia dei dialoghi inglesi ha quel temuto vuoto e il suono privo di colori della maggior parte dei film doppiati”), ma non solo per colpa dell’audio, proprio per Benigni che, secondo Thomas, “nella trasformazione da burattino a persona in carne ed ossa è costantemente insopportabile”. Insomma l’odio per il film e per il suo interprete strabordano da ogni riga. “Progetto di una vanità disperata” secondo Elizabeth Weitzman del New York Daily News; “Un film letale per i bambini e un innominabile insulto per gli adulti, questo improponibile fiasco è una tortura per tutti” nelle pagine dell’Observer; ma il colpo di grazia lo dà ancora Kevin Thomas, tirando fuori la vecchia questione felliniana e insieme rievocando lo spirito della “Maledizione di Pinocchio”:

Quando diresse La voce della luna, Fellini immaginò di fare un Pinocchio con Benigni e con il suo seduttivo e spesso profondo stile visionario, avrebbe potuto realizzarlo. Meglio sarebbe stato se Benigni avesse lasciato che l'idea morisse con il Maestro.

Federico Fellini aveva infatti pensato di fare la sua versione cinematografica di Pinocchio con Giulietta Masina, Marcello Mastroianni, Francesca Dellera e appunto Roberto Benigni, che con lui aveva lavorato nel 1990 sul set di La voce della luna. Fellini però morì prima di realizzarlo e il suo Pinocchio rimase per sempre un progetto su carta. La stessa cosa accadde poi a Stanley Kubrick, che aveva lavorato a una sua personale versione del classico con lo sceneggiatore Brian Aldiss. Il progetto di Kubrick non rimase però incompiuto ma fu portato a termine in seguito da Steven Spielberg, un anno prima che uscisse quello di Benigni: si trattava di A. I. – Intelligenza artificiale (2001), una versione fantascientifica della storia di Collodi che con un budget di 100 milioni di dollari ne incassò “solo” il doppio (che è il minimo sindacale per andare in pari, viste le spese di marketing e P&A). Un fallimento. Come fu un fallimento nel 1994 anche l’OcchioPinocchio di Francesco Nuti.

Insomma, a detta della critica americana nemmeno Benigni riuscì a fuggire a quella maledizione.

E in Italia, invece? Le cose andarono decisamente meglio (tenendo a mente che non c’era tutta la questione del doppiaggio da dover risolvere). Con un esordio nel primo weekend di uscita a ottobre 2002 di 7,9 milioni di euro su 860 sale, Pinocchio collezionò a fine corsa la dignitosa cifra di 26.198.000 euro. Anche se tuttavia quella cifra, sommata a tutti gli incassi nel resto del mondo, probabilmente non bastò a coprire tutte le spese.

Ma la vera sorpresa era nelle pagine della critica quotidianista. Quando negative, le critiche si concentrarono soprattutto sulla mancanza di creatività dell’opera rispetto all’originale, sulla sua scarsa inventiva. Volarono sì complimenti per tutto il compartimento visivo a cura di Danilo Donati (costumi e scenografie) – come anche avevano ammesso gli stessi recensori americani, che era l’unica cosa che salvavano del film insieme alle musiche di Nicola Piovani – ma come scrisse Roberto Nepoti su Repubblica:

Per il resto, il film è una specie di traduzione interlineare del libro. […] Quel che manca è una fantasia visionaria, un senso della dismisura, della poesia che appartiene a Benigni come attore e autore, ma che il Benigni regista non ha ancora acquisito.

Stesso discorso per Alberto Crespi su L’Unità, secondo cui “La fedeltà al testo è tale che l'attore non si abbandona mai […] Per il resto del film, Benigni la butta decisamente sul patetico...”. Il problema però non sembrò essere solo quello dell’adattamento, ma proprio di carattere del suo autore: “Benigni non sceglie, […] si tiene saggiamente a metà. E il film, con tutti i suoi personaggi e i suoi trucchi, non spicca mai il volo” per Fabio Ferzetti de Il messaggero. Insomma, come riassunse Maurizio Carbona su Il Giornale, per una parte della critica italiana “A difettare in Pinocchio è invece l’emozione”.

Nonostante una certa freddezza di una certa parte della stampa quotidianista, andando veramente a fondo nella questione si scopre che in realtà Pinocchio in Italia piacque, e non poco. E se la critica americana era inorridita di fronte alla figura adulta di Benigni, per Franco Patruno (L'Osservatore Romano) al contrario “ha indovinato la modalità percettiva per entrare nel mondo di Pinocchio, cioè quella di guardarlo con occhi da bambino…”; e come per il critico del Los Angeles Times il film era quasi un torto a Fellini, per Roberto Silvestri de Il Manifesto all’opposto il film non fu “Mai noioso, per nulla felliniano (se non nel 'mood')”.

Era allora davvero colpa del doppiaggio o era una questione più ampia, una questione culturale? Non fu solo l’impianto visivo ad essere apprezzato. E se per alcuni la recitazione stessa era tutto il contrario di quella pura vanità - per Gian Luigi Rondi de Il tempo (“La recitazione di Benigni è in equilibrio fra la spensieratezza e il dolore, ora pezzo di legno agitato e saltellante ora anima sensibile, ferita e impaurita”), e per Maurizio Porro de Il Corriere della Sera (“[Benigni] è giustissimo nella parte, spesso sottilmente spiritoso, si arrampica da tutte le parti, materialmente e psicologicamente”) - nemmeno quella fu la cosa che più fu amata sui giornali italiani. Fu, nelle parole di Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore), il suo coraggio:

La favola di Pinocchio è un oceano sconfinato, al pari d'ogni opera davvero grande. E' difficile tradire un oceano. I più accorti, e i più coraggiosi, provano invece a scendere nelle sue profondità e là trovano tesori. Così fa Benigni... s'immerge nelle avventure della marionetta e ne cava un tesoro. Cioè, ne cava un film che usa la lingua delle favole per parlare all'intelligenza e all'anima.

Pinocchio di e con Roberto Benigni è disponibile su Disney+.

Continua a leggere su BadTaste