Batman – Il ritorno, compie trent’anni il circo dei freak di Tim Burton

Batman – Il ritorno compie trent’anni, ed è ancora oggi uno dei più completi manifesti della poetica burtoniana

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Batman – Il ritorno compie oggi trent’anni, e ripensandoci ci è comparso in testa un pensiero: chissà quanto doveva essere bello essere Tim Burton nel 1992. Al tempo il regista californiano era al suo quinto film: i primi quattro erano andati tutti magnificamente al botteghino, ovviamente in proporzione al loro budget (da 7 a 40 per Pee-wee's Big Adventure, da 50 a 400 per Batman), e tutto indicava che anche il secondo capitolo dedicato all’Uomo Pipistrello avrebbe avuto lo stesso successo. Burton era una figura che oggi è rarissima a Hollywood, a un passo dall’estinzione: un autore con un’impronta forte e riconoscibile, una poetica molto definita e un franchise miliardario tra le mani, da trattare come meglio credesse. Neanche a Christopher Nolan, per restare in tema Batman, è mai stata lasciata tanta libertà creativa; per non parlare dei registi dell’MCU, che da sempre devono lottare per conciliare le richieste produttive con la loro ispirazione.

A Burton fu detto, parafrasando, “fai quello che vuoi, tanto sei bravo e porti soldi”. E lui prese alla lettera l’invito: Batman – Il ritorno è un film inconcepibile per gli standard degli odierni cinecomic, e forse solo l’onnipresente Nolan ne ha imparato almeno in parte la lezione. Innanzitutto: usciva come sequel di Batman, eppure se ne fregava quasi completamente. C’è giusto una citazione di passaggio a Vicky Vale per confermarci che siamo nello stesso universo, come si direbbe oggi. Per il resto il film prende la sua personale direzione fin dall’inizio e si disinteressa di qualsiasi continuità o ambizione di franchise. È forse il Batman più autosufficiente di sempre: racconta una storia che comincia, prosegue e finisce, non lascia parentesi aperte, non promette ulteriori ritorni.

C’è poi il fatto che in Batman – Il ritorno c’è veramente poco Batman, e ancora più significativamente c’è una quantità vicina allo zero di Bruce Wayne. Lasciato libero di creare e di raccontare una storia che rispondesse alle sue esigenze creative e non a quelle di marketing, Burton decise di trasformare Gotham in un circo dei freak e di fare un film su uno dei temi che più gli stanno a cuore: il fatto, cioè, che la stranezza non è un difetto ma la nuova normalità, e che essere normali significa essere banali (al contrario di quanto sosteneva un noto poeta italiano). In questo senso, il vero protagonista del film non è Batman, che è più che altro una funzione narrativa e uno specchio nel quale si riflettono le figure che più interessano a Burton; ma è il Pinguino di Danny DeVito, al quale è dedicato l’arco narrativo più completo (e più drammatico) del film.

È lui che apre le danze, è a lui che è dedicata la sequenza di apertura, un abbandono infantile dovuto al fatto che il povero Oswald Cobblepot ha un numero di dita delle mani diverso da cinque. È un modo per mettere in chiaro fin da subito uno dei temi del film: il problema non è “la gente strana”, il problema è quella normale – che non a caso è quasi sempre rappresentata come una massa urlante e informe. È anche un modo per eliminare fin dall’inizio il concetto classico di “villain”: dove il Joker aveva sì origini tragiche ma una personalità da supercriminale sociopatico, Pinguino fa il possibile e l’impossibile per farsi accettare dal resto di Gotham City, e diventa “il cattivo” solo quando i suoi concittadini lo respingono e lo rifiutano nonostante tutto il suo impegno.

Batman – Il ritorno è quindi anche un film di maschere reali e metaforiche (non a caso una delle battute più famose del film è “Tu sei geloso di me perché io sono un mostro di origine controllata e tu invece devi portare una maschera!”, rivolta a Batman dal Pinguino), ed è proprio questo aspetto del supereroe l’unico che interessa davvero a Burton. Bruce Wayne è una persona normale che fa di tutto per non rivelare di essere eccezionale – l’opposto di un personaggio burtoniano. Batman, invece, indossa una maschera per diventare il mostro che non è: gli serve per essere accettato dal suo stesso autore, che però non nasconde mai di trovare più interessanti i monologhi di Oswald Cobblepot (Batman – Il ritorno è un film molto statico e molto teatrale) dei problemi dell’Uomo Pipistrello.

Persino Catwoman, inserita un po’ a forza per la necessità di dare una controparte femminile all’eroe, è più interessante di Batman, secondo Tim Burton e quindi secondo il film. Dove Cobblepot è il freak che non ce l’ha fatta, poi sta per farcela, infine viene gettato nel fango e si ribella, Selina Kyle è una freak che ha la fortuna di essere esteticamente illegale: mutatis mutandis, è lo stesso discorso che si può fare sulla differenza tra uno zombi e un vampiro, e sul fatto che i secondi sono spesso sessualizzati mentre i primi quasi mai. Anche Catwoman, come il Pinguino, confronta Batman non in quanto supereroe e giustiziere della notte ma in quanto persona che deve nascondersi dietro una maschera per essere sé stessa; il personaggio di Michelle Pfeiffer forse non è fondamentale per la trama in quanto tale, ma è comunque per Burton un elemento utile a esporre le sue teorie.

Daniel Waters, lo sceneggiatore del film, ha detto che “mi hanno detto che Batman – Il ritorno è un film per chi odia Batman, e io lo accetto”. “Odiare” non ci sembra il termine giusto: più che altro è un film per chi nei film di Batman è più interessato a Gotham City e ai suoi abitanti che a Batman stesso. Burton è uno di questi, e si vede: dove il primo Batman era una perfetta macchina da guerra che non sgarrava mezza scena, Batman – Il ritorno è incostante, ha un ritmo altalenante e zoppica spesso durante le sequenze d’azione, come se Burton le avesse girate per forza e non vedesse l’ora di levarsele di torno. Ma per questo è anche più vivo e più avvolgente, un film che va vissuto come una lunga seduta psicanalitica più che come una scarica d’azione. È indiscutibilmente un film di Tim Burton, che probabilmente funzionerebbe anche se al posto di “Batman” e “Catwoman” ci fossero “Vampireperson” e “The Lioness” – forse addirittura se non ci fossero supereroi e supervillain ma persone normali. O forse no: a Tim Burton la normalità non è mai piaciuta, e poche volte l’ha spiegato in maniera così chiara come in Batman – Il ritorno.

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