Barb Wire: quando Pamela Anderson andava al festival di Cannes "svestita" da supereroina

Barb Wire, con Pamela Anderson, sembra essere il film a cui Martin Scorsese pensa quando dice che i cinecomic non sono cinema

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Non così trash da essere esilarante e per nulla bello, Barb Wire con Pamela Anderson sembra essere il film a cui Martin Scorsese pensa quando dice che i cinecomic non sono cinema. Diretto da David Hogan e tratto dal fumetto omonimo della Dark Horse (che era già arrivata in sala con The Mask), è un mix letale per la pazienza tra Casablanca, Mad Max 1997: Fuga da New York.

Ironicamente, il film arrivò in sala un anno prima della post apocalisse di Carpenter, nel 1996. Era un periodo di stagnazione per i film tratti dai fumetti. Una nicchia che disprezzava profondamente il proprio pubblico trattandolo, per la maggior parte, come un ammasso di adulti mai cresciuti sprizzanti voglie carnali inespresse. I produttori interpretavano però al cinema quello che i fumetti hanno fatto per la gran parte degli anni ’80: dare una spinta all’aspetto grafico attirando lettori grazie alle forme esagerate dei corpi e alla seduzione dell’occhio.

Quindi Pamela Anderson è perfetta come Barb Wire. E sembra uscita da un disegno, ma questo già è noto. Donna esplosiva, Barb è proprietaria di un importante night club: l’hammerhead. Un raro luogo di libertà nel 2017, mentre fuori esplode la seconda guerra civile degli Stati Uniti. Lei non ne vuole sapere di prendere una posizione. Seduce, scambia beni e fa affari, e cerca di stare lontana dai guai. Fino a che i guai non le entreranno “in casa” nella forma di due ribelli, importantissimi per le sorti del conflitto. L’estrema destra ha in mente di spargere un virus letale e la cura è nel sangue della ragazza in fuga. Per lasciare gli States e arrivare salvi in Canada servono però delle lenti a contatto azzurrissime che passeranno di mano in mano tra buoni e cattivi permettendo, ovviamente, alla seducente eroina di entrare in azione.

Una trama così “d’essai” che ricalca quella del Casablanca di Michael Curtiz. Già di per sé questo riferimento colto è esilarante. Perché sin dall’incipit Barb Wire scrive a caratteri cubitali che l’unica sua ragione di esistenza è il corpo di Pamela Anderson. In una rosa di attori scarsissimi, ad eccezione di Udo Kier mai così affabile, lei è però l’unica che ci crede veramente. Alla colonna sonora anche un brano di Tommy Lee (a questa voce vedere Pam & Tommy) e tra i comprimari figura anche Temuera Morrison sempre intento a imitare gesti che simulano emozioni (vedere The Book of Boba Fett). 

Barb Wire film

Come spesso accade, in questo caso l’America del futuro passato è immaginata con la minima inventiva. Figlia del Carpenter che in quello stesso anno aveva proposto il bizzarro Fuga da Los Angeles, non ha niente che resti in mente. Fa sempre simpatia che i dispositivi tecnologici più stravaganti sono oggi realtà superata e di molto. Quando il progresso tecnologico supera la fantasia. Il riconoscimento facciale e la scansione della retina sono a portata di mano (un po’ meno quest’ultima) e di smartphone… che nel film non viene nemmeno ipotizzato.

Don't call me babe”, dice Barb Wire prima di spaccare i culi. Si premura però anche di dare quello per cui il pubblico si è recato in sala. Brevi scorci al corpo nudo in lunghe sequenze che qualcuno definirebbe erotico-soft e altri “camp”. Poco importa la chiave di lettura, tanto alla fine si ricorderà solo l’interminabile apertura con la protagonista spruzzata di acqua mentre si dedica a movenze sexy (qui clip NSFW). Cinque minuti di vedo (molto) e non vedo (poco) ispirata da un (vero) incubo dell’attrice. Finisce la sequenza con un tacco conficcato nel cranio dell’uomo che le manca di rispetto. Barb Wire torna subito agli affari come se niente fosse, per chi l’avete presa?

La produzione fece pressione al regista per includere più scene di nudo. Il PG13 non andava bene, ovviamente. Ma l’abito non fa il monaco, o meglio la supereroina. Quindi se guardate sotto i corsetti di pelle e i top scollati trovate una combattente e un’imprenditrice, e anche una acuta osservatrice delle dinamiche socio politiche del mondo. Qualche esempio? Sotto pseudonimo di Olivia Lewis possiede una licenza per la prostituzione aggiornatissima che usa per sedurre una sorta di ragionier Ugo Fantozzi in latex. Più avanti si risentirà parecchio per il pagamento di uno scambio di oggetti preziosi saldato con carta di credito e non contanti. Fuck the system.

Barb Wire fantozzi

Più adatto alle pareti delle auto officine che al cinema, Barb Wire ha degli assurdi spunti cyberpunk, come una donna torturata con innesti metallici, di cui ci si dimentica prestissimo. È figlia di un periodo assurdo nella storia del supereroismo al cinema, in cui fondamentalmente a nessuno fregava di fare un buon prodotto (con le risapute eccezioni di casa DC). Le famiglie non erano nemmeno lontanamente considerate come pubblico: ricordiamo che erano ancora anni di grande marginalità e crisi del fumetto, visto come una forma letteraria minore e talvolta dannosa.

Erano “i giornaletti” che si leggevano di nascosto, che destavano preoccupazione ne genitori colti che leggevano la stampa dabbene e ascoltavano i pareri dei migliori. I fumetti, in tutta risposta, hanno continuato a fare il loro nel liberare l’immaginario dei giovani. E i film? Non dovevano essere solide interpretazioni sul tema. Bastava trasporre, più o meno fedelmente, i disegni e tutta l’attrattiva dell’esagerazione che avevano su carta.

Per questo Barb Wire ha collezionato Razzie Award senza riuscire mai a fare il giro e a diventare una “serie z” esilarante. Perché non ha mai preteso o provato ad essere qualcosa di valido. Casablanca non è un omaggio, ma una stampella su cui costruire un qualcosa che stia in piedi. I personaggi di contorno e le scene d’azione fanno il loro con un montaggio frenetico che permette di tenere il budget al minimo. Però era anche un periodo di esplorazione profonda, in cui per cercare una forma sensata si continuava a sbagliare bersaglio. 

Andava fatto. Si doveva almeno cercare di lucrare sul successo di Baywatch e sulla sovraesposizione mediatica della Anderson. Se la gente era disposta a comprare un giornale scandalistico per vedere le foto della star, perché non fargli pagare il biglietto per avere lo stesso servizio? Così spedirono Pamela Anderson a promuovere il film a Cannes vestita quasi con il costume di scena. Anche se avevano iniziato a girare il film solo da poche settimane. 

In quella cornice ha dichiarato tutto il suo amore per i tatuaggi che i truccatori le fanno ogni giorno e che le ricordano quelli del marito, per gli stunt eseguiti in prima persona e soprattutto per il personaggio. 

Quando ho letto il fumetto sapevo che nessun personaggio avrebbe potuto interpretare il personaggio se non io” disse al Los Angeles Times. Ed effettivamente è difficile darle torto. Il suo manager invece non voleva che interpretasse un “personaggio da cartoon”. Lei insistette, sentendolo vicino all’esperienza che stava vivendo. “Mi sono fatta strada a Hollywood e sono sempre nei guai facendo cose che vanno storte, ma alla fine arrivo dove voglio ed è così che è Barb. Dentro di me c’è una vena malvagia, contorta e oscura che posso finalmente esplorare”. Ha fatto bene quindi a fare male con Barb Wire. Un insipido tassello di una storia segreta del cinecomic invece affascinante e primordiale.

Pensare che due anni dopo il collega bagnino David Hasselhoff avrebbe fatto Nick Fury: Agent of Shield, nel tentativo di dare il via a una serie tv. Chissà cosa sarebbe accaduto se i due ce l’avessero fatta.

Avete mai visto Barb Wire? Fatecelo sapere nei commenti!

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