Banana Joe raccontato con tre battute del film: la rivoluzione anarchica di Bud Spencer

Banana Joe, attraverso tre dialoghi del film spieghiamo perché si è meritato lo status indiscusso di piccolo cult

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Banana Joe è un venditore di banane senza licenza. Esercita la sua professione nel paese Colombiano di Amantido, ha moltissimi figli (tutti maschi) ed è amatissimo. Quando Torsillo, un malvivente del posto, decide di ampliare nella zona i suoi traffici di banane dovrà vedersela con Joe. L’energumeno però rischia di venire sconfitto nella sua strenua resistenza contro l’industrializzazione per via di lunghe (e comiche) trafile burocratiche.

Tutta la magia di questo film si può raccontare con tre battute del protagonista del film.

Vediamole di seguito!

Banana Joe: “Dici che un ladro può essere ministro? Beh allora sono proprio ignorante, devo andare a scuola”

In questa battuta, pronunciata sul finale, c’è tutta la carica polemica della sceneggiatura. Il film segna la quinta collaborazione tra Steno e “Bud” che firma anche il soggetto con il proprio nome di battesimo: Carlo Pedersoli. Bud Spencer voleva raccontare questa storia, che è sotto la veste di comica slapstick, uno sfogo verso le insensatezze del capitalismo e le lungaggini della burocrazia. 

L’ingenuità di Joe rappresenta lo spaesamento dell’uomo comune verso la modernità. L’elogio del progresso, sempre e comunque, viene rimesso a posto a suon di schiaffi. L’unica vera arma, nonché linguaggio universale, di un uomo che non sa leggere né scrivere ma che ha un cuore grande quanto i suoi muscoli.

Quella di Banana Joe è una vera e propria rivoluzione anarchica. Insofferente verso i raggiri, e ancora di più verso la corruzione, non colpisce mai per primo, ma - come da tradizione - quando reagisce è uno spettacolo. Tutt’altro che una protesta non violenta, la sua è una ribellione a suon di “buone botte”. Steno riesce infatti magistralmente a darci l’impressione che ogni atto di violenza (cartoonesca, certo) sia necessario e catartico.

Sotto traccia nel film ci sono diversi riferimenti a questa idea di rivoluzione. Non a caso infatti il bambino che si lamenta della scuola e che viene redarguito si chiama Fidelio. Non è l’unico riferimento alla rivoluzione Cubana che incontreremo seguendo il peregrinare del nostro eroe, tra caserme, chiese e uffici.

“Sapete perché sono così forte? Perché mangio solo banane”

Più che essere una rivisitazione di Maciste o di Ercole, Banana Joe è un Braccio di ferro ingenuo ma altrettanto concreto. Come detto nella battuta, egli non ha superpoteri, ha solo un eccesso di potassio e fibre proveniente da un’alimentazione a base solo di banana. 

La sua identità (cercata per tutto il film) è alla luce del sole. Banana Joe non indossa maschere, è un sempliciotto senza filtri che non ha bisogno di fingere. Lo smoking gli sta stretto, il suo vero costume per l’azione è un altro. Prima di tutto non può esserci Banana Joe senza sporco. Le macchie sul vestito sono segno di autenticità, di lavoro, di chi si sporca le mani per ottenere quello che vuole. Ritorna più volte la gag dell’odore e, in un cinema contemporaneo che sembra aver perso l’olfatto, è geniale. Un po’ scimmia, un po’ odore virile, il suo profumo non è disgustoso, ma primordiale. E infine, il vestito sgualcito (per gli altri, non per lui) è vestito alla perfezione da Bud Spencer.

La fisicità del personaggio straborda dai tessuti, non è contenibile, è una mascolinità che pulsa. I loschi affaristi vestono invece un bianco candido, che senza macchia non è. I loro abiti sono punitivi e femminei nel mondo di Joe, dove una calza è un oggetto seducente e insolito. 

“A me escono solo figli maschi”

Joe è tanto uomo, tanto virile, che non riesce ad avere figlie femmine. E, sebbene battute del genere stridano rispetto alla sensibilità odierna e alla rinnovata consapevolezza sulla rappresentazione, l’intento non è mai denigratorio verso la figura femminile. E fa ridere, non poco!

Banana Joe è però un film totalmente maschio, dove più volte il tema della banana ritorna in chiave allusiva. Lo stato selvaggio si contrappone alle regole del capitalismo che sono una gabbia. Molti si fanno domare e ne escono castrati. Altri invece distruggono quella gabbia che è dipendenza: dal gioco, con cui gli industriali si riappropriano dei salari dati ai lavoratori, e dalla produzione senza etica.

C’è tanto divertimento nel film di Steno, che regala ancora oggi un ottimo divertimento per famiglie, aiutato da una colonna sonora degli Oliver Onions tormentone sia dai titoli di testa. Ma non è da trascurare nemmeno una lettura più profonda e polemica verso il nulla degli affanni moderni. Come nell’inquadratura più bella di tutto il film in cui un bambino prende una mancia dopo avere fatto da lustra scarpe. Ma siccome le monete non si mangiano e non sono nemmeno un giocattolo, il bambino le getta via con disinteresse. Poco dopo arriverà Joe a distruggere il tempio del consumismo rapace a cui il mondo guardava con grande preoccupazione in quegli anni. Su quel terreno ci ricostruirà una scuola, perché “un uomo che non sa né leggere né scrivere rimarrà sempre un Pinco Pallino qualunque”. E quello di Banana Joe, che prima era un nome senza identità, diventa alla fine il segno di un’identità ritrovata. 

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