Bad Tribute: Blade Runner 2049

Il Bad Tribute della settimana è dedicato a Blade Runner 2049

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Spoiler Alert

NOTA: Bad Tribute si trasforma e diventa la rubrica di Alessia Pelonzi, redattrice e critica dei nostri siti ma anche apprezzata illustratrice, che periodicamente presenterà un artwork parlandoci non solo della sua opera ma anche del film a cui è ispirata.

La prima volta che vidi Blade Runner, avrò avuto dodici, forse tredici anni. Ero con mio padre, cinefilo anomalo, cultore dei western di John Ford e, più tardi, inconsueto estimatore di Von Trier. Alla fine del film, mi chiese perché stessi piangendo. La risposta era ovvia: non volevo che Roy Batty (Rutger Hauer) morisse così, su quel tetto, dopo aver salvato Rick Deckard (Harrison Ford).

"Quindi non pensi che Roy sia il cattivo?" mi domandò. Non ricordo bene cosa risposi, ma le mie parole furono abbastanza incerte da spingerlo a dirmi qualcosa che ancora tengo a mente: "Quando penserai di avere davanti una persona cattiva, ricordati di Roy."

Forse anche a causa della sua eccelsa modernità nell'evitare ogni manicheismo, Blade Runner ha rappresentato, per me, un film pioniere la cui visione del futuro resta tuttora ineguagliata. È con estrema difficoltà che mi accingo a parlare del suo sequel, un figliol prodigo che si allontana da un padre ingombrante per poi, inevitabilmente, tornare all'ovile sperando di assorbirne, almeno in parte, la linfa del miracolo.

Pur non facendo parte del nutrito gruppo di entusiasti che hanno gridato al capolavoro di fronte al film di Villeneuve, ne ho apprezzato la raffinata estetica, commistione delle impareggiabili suggestioni della pellicola dell'82 e di aggiornati incanti visivi, specchio dell'evoluzione digitale non solo del mondo che il sequel dipinge, ma anzitutto di quello in cui esso è stato concepito e realizzato.

Manca, è vero, l'innovazione delle ridondanti architetture della Los Angeles descritta nel primo film; per molti versi, Blade Runner 2049 si limita a replicare le illuminate trovate del suo predecessore, sfoggiando il vantaggio del tempo grazie a una realizzazione tecnica impeccabile, ma priva del mordente della genialità che, ancora oggi, a dispetto della disillusione conseguita nell'età adulta, mi fa sgranare gli occhi dinnanzi al lavoro di Scott.

C'è, tuttavia, un rimodernamento accattivante - seppur non rivoluzionario - nel seguito firmato da Villeneuve, legato soprattutto alla storia d'amore tra il protagonista K (Ryan Gosling) e la sua sposa olografica Joi (Ana de Armas), al centro di una scena di sesso di straniante bellezza. Il digitale è, in questo sequel, il cuore della nuova disparità, la frontiera che si anela a superare, il confine da sondare rincorrendo l'eterno interrogativo "cosa ci rende umani?".

Il paradosso della società dipinta nel film di Villeneuve è ciò su cui mi sono focalizzata in questo Bad Tribute, disegnato interamente in digitale. Joi è qui visibile sia nel grande ologramma pubblicitario del prodotto targato Wallace, sia nella versione domestica e umana che incontriamo in casa del protagonista K, che stringe in mano il dispositivo che consente alla compagna di seguirlo al di fuori delle mura domestiche.

Ho inserito un piccolo richiamo al film dell'82 nella colomba in volo, simbolo di quell'anima di cui i replicanti - e, nel 2049, gli ologrammi come Joi - sono ritenuti privi. Resta quella, a mio parere, la struggente tematica che innalza Blade Runner - e, di riflesso, il suo sequel - a racconto filosofico di sconcertante profondità.

L'umanità prescinde il discutibile miracolo fisiologico al centro del film di Villeneuve: non tanto nell'utero improvvisamente fecondo di Rachele, evocato dalle quinte scure che inquadrano l'immagine, quanto nelle lacrime (di Roy, di K) perse nella pioggia o nella neve risiede l'essenza dell'essere umano.

Questa è l’immagine definitiva:

Bad Tribute - Blade Runner 2049 di Alessia Pelonzi

Ecco invece il work-in-progress in una galleria da sfogliare:

Galleria

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