Avengers: Infinity War, l'Universo Cinematografico Marvel gioca con noi e ci piace!

L'Universo Cinematografico Marvel gioca con noi. E la cosa ci piace parecchio.

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Spoiler Alert

Attenzione

L'articolo che segue contiene spoiler su Avengers: Infinity War

Sconsigliamo la lettura a chi non ha ancora avuto modo di vedere il film prodotto dai Marvel Studios

Evito di tirare fuori dalla tastiera l'inevitabile digressione sul tempo che passa, sulle cose che sono accadute dentro e fuori dai cinema fra il 2008 e il 2018 perché, grazie al cielo, l'internet ha una capacità di sintesi ben superiore alla mia.

Che sono notoriamente un divagatore seriale.

Indi per cui – pleonasmo arcaico che adoro perché fa uomo dabbene d'altri tempi – lascio la parola in merito alla foto vista su 9Gag qualche giorno fa.

È permeante. Non tanto quanto i meme con The Donald e Kim Jong-un, ma dice comunque molto.

Dice molto perché ci ricorda come i film dell'Universo Cinematografico Marvel, così come quelli di Star Wars, siano indirizzati principalmente a un pubblico giovane che è cresciuto e/o sta crescendo con lui. Così come quelli della mia età che ancora fanno i finti adolescenti con le t-shirt geek magari grazie a una professione che per certi versi non fa che dilatare a dismisura l'adolescenza... sono cresciuti con la Trilogia Classica di Star Wars vista e rivista in TV negli anni ottanta e con quella dei prequel, del Signore degli Anelli e l'epopea di Harry Potter a cavallo fra la fine dei novanta e l'inizio di quel 2000 che non ci ha portato lo SQUID di Strange Days, ma al massimo e con qualche colpevolissimo anno di ritardo rispetto a quanto preventivato da Kathryn Bigelow, i porno di Brazzers in VR.

E puntualizzo: l'essere indirizzati a un pubblico giovane, magari insistendo su quel Rating PG-13 che garantisce i sacrosanti incassi che certi blockbuster meritano, non è assolutamente da intendere con accezione negativa. Buona parte di questi film, per lo meno quelli più riusciti, sono come le cipolle e Shrek, hanno strati su strati e ognuno di essi è appetibile a una fascia di pubblico ben determinata in base all'età e a tutte quelle variabili che rendono ogni persona diversa da un'altra. C'è a chi piace la sola azione, c'è chi in un blockbuster vede una critica o il riflesso dei tempi, c'è chi cerca escapismo, c'è chi li vive come momenti di aggregazione.

E questo, cari miei, è un dato che accompagna l'arte umana da sempre.

Da quando nei paesi dell'antica Grecia la gente si riuniva in teatri vari ed eventuali, con bestiame rumoroso e produttore di escrementi al seguito, per ascoltare i vari capitoli di franchise con divinità incazzose in guerra fra loro, condottieri quasi invulnerabili, gente che si trovava a viaggare per anni e anni affrontando pericolose e bizzarre avventure prima di riuscire a tornare a casa e veder morire il proprio anzianissimo cane. All'epoca non c'erano l'IMAX o il Dolby Atmos, ma dei media center organici e ambulanti chiamati aedi.

Ecco, come sempre non ho tenuto fede alla promessa iniziale e ho divagato.

Vabbè, chi mi conosce lo sa e magari mi evita a prescindere, anche se di sottofondo non c'è O Superman di Laurie Anderson a rimarcare la questione (questa la capiranno solamente gli anziani come Francesco Alò).

Arriviamo al dunque.

Arriviamo al fatto che dopo dieci anni di UCM, dopo due lustri di un'operazione cinematografica senza pari nella storia del cinema per portata e coerenza editoriale, dove abbiamo visto pellicole eccellenti, film pessimi e lungometraggi senza infamia e senza lode, Avengers: Infinity War è riuscito a fare l'impensabile.

Stupirmi e restarmi dentro per ore e ore.

Presumibilmente giorni, visto che credo che lo rivedrò altre “N Volte”.

E l'ha fatto grazie all'incredibile bravura di una narrazione che non ha paura di giocare con le aspettative del fruitore.

Come George R.R.Martin, David Benioff e Dan Weiss quando la serie TV de Il Trono di Spade è giunta finalmente allo stesso climax dei libri.

La morte di Jon Snow.

Sia i lettori dei libri della saga che i “semplici” spettatori dello show HBO si sono ritrovati, una manciata di anni fa, nella stessa, identica situazione d'incertezza.

Certo, i primi l'hanno vissuta molto più a lungo date le ben note tempistiche di pubblicazione dei romanzi di Martin, ma non è quello che conta. Il fattore rilevante, che trascende il concetto di mero cliffhanger, è la capacità di un racconto di uscire fuori dallo schermo e di entrarti dentro.

Nelle budella.

Con irruenza destabilizzante.

“No, non può essere davvero morto. Sì, ok, si è beccato 185 pugnalate, ma non ha senso. Però...”.

È con i “però” che i Grandi Racconti ti tengono in pugno.

È con i “però” che mettono in gioco le tue sicurezze.

Perché siamo del tutto alla mercé dei narratori che queste storie le costruiscono con precisione svizzera.

Vedere Peter Parker morire fra le braccia di un Tony Stark mai così emotivamente scosso (l'avevamo trovato a inizio film con un forte desiderio di paternità....), vedere alcuni dei più noti volti dell'UCM diventare cibo per lo Swiffer sono bocconi amarissimi da mandare giù.

Osservare Thanos riposarsi e godersi la pace dell'alba dopo aver spazzato via metà universo laddové qualcun altro si è preso una giornata di ferie quantomeno dopo aver dato vita all'intero creato è straziante per la dissonanza che crea fra la palpabile soddisfazione del Titano Pazzo e lo struggimento interiore da "cosa ca**o ho appena visto?".

Quello schermo nero, quei titoli di coda bianchi che arrivano - scarni e sintetici - dopo anni di crediti Marvel ravvivati da grafiche ricercatissime sono un cazzotto in faccia tipo il silenzio tombale dopo le Nozze Rosse della terza stagione del Trono di Spade.

E la scena post-crediti con Nick Fury e Maria Hill non fa che rendere ancora più evidente il nostro ruolo di “vittime privilegiate” di un gioco narrativo sopraffino in cui il “What if...?” diviene parte integrante dell'esperienza. Mentre un pollice gigante è pronto a schacciarci.

Under my thumb
The girl who once had me down
Under my thumb
The girl who once pushed me around

Quel messaggio mandato da Nick Fury indietro nel tempo (?) - o da qualche parte nello spazio (?) - a Captain Marvel servirà?

Sicuramente sì, ma come?

Doctor Strange ha violato le sue stesse regole consegnando la Gemma del Tempo a Thanos per salvare la vita a Tony Stark.

Sa già quello che “è successo nel futuro?”.

Ovviamente sì, ma a che prezzo ha preso questa decisione e come si vincerà quell'unica sfida contro Thanos sui 14 milioni di scenari futuri possibili presi in esame dallo Stregone?

Sappiamo che in un modo o nell'altro il Villain con la V maiuscola che l'UCM stava aspettando - dopo avercelo mostrato con una serie di brevissimi antipasti – capitolerà.

Quello che ignoriamo sono le dinamiche. Che saranno probabilmente simili quanto vogliamo ai vari reboot cui i lettori e le lettrici dei fumetti sono di sicuro più avvezzi e avezze rispetto alla maggior parte del pubblico delle platee cinematografiche che assicura il successo macina dollari del filone.

Ma parimenti “diaboliche”.

Perché noi spettatori siamo come il Nicholas Van Orton di The Game, protagonisti di un gioco in cui le nostre emozioni e aspettative sono in mano a un team di creativi che, con Avengers: Infinity War, ci ha donato lo zenith assoluto del cinecomic e che non ha alcuna intenzione di farci dormire sonni tranquilli in vista dell'uscita di Captain Marvel e del quarto Avengers, separati solo da una manciata di settimane.

E va benissimo così.

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