Atto di forza raccontato in una scena
Atto di forza di Paul Verhoeven compie trent’anni, e noi ve lo raccontiamo con una delle sue sequenze più iconiche
Atto di forza: cioè?
Come dicevamo, Atto di forza è tratto dal racconto Memoria totale (o Chi se lo ricorda, se avete letto la versione uscita per Urania) di Philip K. Dick, pubblicato nel 1966 sulla rivista The Magazine of Fantasy & Science Fiction. Rispetto alla fonte originale, il film di Verhoeven si prende parecchie libertà narrative, cambia nomi e aggiunge o toglie dettagli. Ma il cuore del racconto, la sua tematica principale, rimane intatto anche nell’adattamento; nonostante l’apparenza da thriller politico ambientato su Marte, Atto di forza è in realtà un film sul potere della memoria e dei ricordi, tutto giocato su un dubbio mai risolto: Quaid sta sognando oppure quello che gli succede nel film è tutto vero?
Atto di forza e il dubbio amletico
Solo che le cose non stanno proprio così, o forse sì? La sceneggiatura di Atto di forza, scritta da Dan O’Bannon, Ronald Shusett (rispettivamente sceneggiatore e autore della storia del primo Alien) e Gary Goldman (che tra le altre cose ha scritto Grosso guaio a Chinatown), è costruita a orologeria per insinuare fin da subito in chi guarda il dubbio che tutto quello che sta avvenendo lo stia facendo solo nella testa di Quaid, e che tutto quello che succede nel film dopo i primi venti minuti circa non sia altro che il sogno delirante di un tizio sottoposto a una procedura pericolosa.
Ogni snodo di trama di Atto di forza si può giustificare in entrambi i modi. Subito dopo essere stato sottoposto all’operazione di Rekall, Quaid comincia a venire inseguito da gente che lo vuole far fuori: perché l’hanno ignorato fino a quel momento? È perché la procedura ha riportato in superficie ricordi della vita da agente segreto di Quaid che erano stati cancellati per proteggerlo? Oppure è tutta una simulazione, un ricordo falso, e anche i massacri perpetrati da Quaid prima di arrivare su Marte sono parte della costruzione narrativa dell’impianto? Quaid sognava Melina la bruna anche prima della procedura: era un ricordo reale che cercava di riemergere, oppure era solo un sogno che si è poi inserito nella memoria artificiale creata da Rekall?
La scena
La sequenza che meglio riassume la dualità del film arriva, non a caso, esattamente a metà, quando Quaid (o Hauser, come pare si chiamasse prima di venire riprogrammato – oppure è anche questo parte del falso sogno?) arriva finalmente su Marte, incontra Melina e scopre che forse la sua situazione è ancora più complessa di quanto credesse. Subito dopo aver abbandonato Melina, l’ex operaio diventato agente segreto torna nella sua camera d’albergo, dove viene raggiunto da un rappresentante della Rekall, il dottor Edgemar, che prova a convincerlo di quanto vi abbiamo raccontato finora: che nulla di quello che sta accadendo è reale, e il vero Quaid è ancora intrappolato su una sedia in attesa che l’episodio psicotico si concluda. Ecco come Edgemar spiega la situazione a Quaid, anticipando peraltro di qualche anno Matrix:
La scena completa, che purtroppo siamo riusciti a trovare solo in bassa risoluzione, è invece questa: comprende anche l’ingresso in scena di Lori e, soprattutto, la scelta di Quaid e le sue conseguenze:
La lettura della scena è facilissima: Edgemar e Lori, che lavorano per il capo dell’Agenzia Cohaagen, stanno cercando di convincere Quaid ad arrendersi e a prendere una pillola che, con ogni probabilità, lo farà addormentare e darà loro il tempo di cancellargli nuovamente la memoria e reinstallarlo nella sua esistenza di operaio sposato con Lori (questi almeno sono gli ordini di Cohaagen). Ma come sempre in questo film, è impossibile non farsi venire il dubbio che i due stiano dicendo il vero e che Quaid stia davvero immaginandosi tutto. Anche il dettaglio che teoricamente dovrebbe togliere ogni dubbio (Edgemar sta sudando, quindi ha paura, quindi è una persona reale e non un inserto artificiale nel delirio di Quaid) è facilmente smontabile: per quanto ne sappiamo, Quaid si sta divertendo un mondo nel suo sogno, e il suo subconscio ha inventato il particolare della goccia di sudore per giustificare l’omicidio di Edgemar e il rifiuto della verità.
E Paul Verhoeven gioca tantissimo con questa ambiguità, a tratti in modo molto subdolo. È rivelatoria in questo senso una frase di Edgemar, che alla domanda “quindi se ti uccido non ti succederà nulla?” risponde “a me no, ma le conseguenze su di te sarebbero devastanti. Nella tua mente sarei morto, e senza nessuno a guidarti resteresti intrappolato per sempre nella tua psicosi. Le pareti della tua realtà crolleranno”.
Pochi secondi dopo, le pareti letterali, quelle della stanza d’albergo dove si trova Quaid, crollano sul serio: gli scagnozzi di Richter, anche lui membro dell’Agenzia e marito (veri) di Lori, l’hanno trovato. È quasi impossibile notare questo passaggio alla prima visione: succede tutto molto rapidamente, e ogni ragionamento viene spazzato via dalla sparatoria che segue, e dal successivo inseguimento, e via a rotta di collo tra rivelazioni, colpi di scena e altre esplosioni. Ma è un segno di come Verhoeven fosse consapevole che gran parte del fascino quasi hitchockiano di Atto di forza sia legato al dubbio “alla Inception” che instilla nel pubblico, e che neanche l’ultima inquadratura del film riesce a fugare. Difficile immaginare un finale più dickiano di così.