Attila flagello di Dio fa ancora ridere?
Attila flagello di Dio con Diego Abatantuono è considerato un classico della comicità italiana, ma che effetto fa riguardarlo oggi?
“Sì”.
Attila è un film che esiste grazie a Enzo Jannacci e Beppe Viola, i fondatori del gruppo di cabaret I Repellenti, che comprendeva tra gli altri Massimo Boldi, Giorgio Faletti e appunto Diego Abatantuono. Attila esiste anche grazie allo stesso Abatantuono: I Repellenti nacquero intorno al Derby Club di Milano, che come raccontava l’attore sul suo ormai defunto sito ufficiale apparteneva ai suoi zii Angela e Giovanni Bongiovanni. Abatantuono, quindi, è uno che è nato e cresciuto nell’ambiente del teatro e del cabaret, con il cinema come logico passo successivo: furono Steno e Monica Vitti a lanciarlo definitivamente in Il tango della gelosia, che diede il “la” al periodo del già citato terrunciello, cioè quella collaborazione con Carlo Vanzina che ci regalò I fichissimi, Eccezzzziunale... veramente, Viuuuulentemente mia e Il ras del quartiere.
Attila flagello di Dio è una curiosa deviazione in questo percorso: uscito un anno prima di Il ras del quartiere, non è diretto da Carlo Vanzina ma da Castellano e Pipolo, che scrivono anche il soggetto, che prevede, per farla breve, di trasportare Abatantuono e i suoi abatantuonismi in una bizzarra versione di Asterix ambientata a Segrate e con al posto dei galli i barbari che adorano Odino. La faccia è quella, l’accento è quello, il bandierone rossonero anche, ma il classico personaggio abatantuoniano viene calato in un contesto tra lo storico, il fantasy e il farsesco; “Più di 2000 anni fa nel sobborgo di Milano che oggi si chiama Segrate, vivevano uomini primitivi di inaudita ferocia e violenza: i barbari!” recita il cartello con cui si apre il film: è possibile che nel 1982 chi si era abituato a vedere il terrunciello calato in contesti... non ci azzardiamo a dire “neorealisti” per non farci ridere dietro, ma comunque quotidiani e riconoscibili, sia rimasto spiazzato di fronte a un film che non assomigliava a nulla di quanto fatto fin lì dal suo protagonista.
L’Italia immaginata da Castellano e Pipolo è un luogo assurdo. I barbari vivono in uno sparuto villaggio di una cinquantina di persone nelle terre di Segrate (che in realtà sono, come tutto il resto del film, nel Lazio), un luogo brullo, inospitale e che puzza di zolfo anche da dietro a uno schermo; conducono una vita semplice: le donne, scarsamente vestite (ci torneremo), coltivano il riso cantando le canzoni delle mondine, mentre gli uomini vanno a caccia di cevvi, daini, purcellini e magari financo maiali setolosi. Sembra di vedere un fumetto di Goscinny e Uderzo virato però sul trash all’italiana – nel senso più nobile del termine, ovviamente: Attila flagello di Dio è un film povero di mezzi, raffazzonato, persino ingenuo, costruito per essere un contenitore di gag a tema più che l’epica parabola di un conquistatore; è un film che si regge sulle invenzioni linguistiche di Abatantuono, su quelle di scrittura di Castellano e Pipolo e sulla familiarità del pubblico con un certo personaggio, per quanto riproposto vestito di pelli e armato di martello gigante.
Come nei fumetti di Asterix, la pace del villaggio gallico barbaro viene rovinata da una razzia romana nella quale tutte le femmine barbare vengono rapite insieme ai cavalli, un insulto (i barbari di Attila sono un po’ dei Dothrakhi) al quale il re dei barbari Ardarico non può che rispondere come farebbe un vero adoratore di Odino: dichiarando guerra a Roma, la città dei romani, come dice anche il nome. Sarà la maga Columbia a presagire la sua vittoria e assicurargli che Odino è dalla sua, e a donargli il suo nuovo nome: Attila flagello di Dio. Nel corso del lungo viaggio da Segrate a Roma passando per Saturnia, i barbari affronteranno innumerevoli avventure e prove sempre più dure e crudeli, e saranno aiutati anche dalla ribelle Uraia, una delle femmine rapite, che riesce a sfuggire alle grinfie dei romani per unirsi all’esercito barbaro.
Suona tutto incredibilmente epico, vero? Sulla carta Attila flagello di Dio potrebbe essere un kolossal ai confini del fantasy che arriva diretto dagli anni Cinquanta, e tutti i pezzi del mito sono al loro posto, tra profezie, sirene e spade magiche. Ed è anche per questo motivo che il film funziona e fa ancora così ridere: perché con ingenuità e non sappiamo quanta programmaticità è anche una decostruzione di un intero genere, una parodia chirurgica nel demolire ogni dettaglio che normalmente diamo per scontato in un’opera simile. Perché Attila deve essere il re? Perché il re non può farlo qualcun altro? Nel corso dei loro viaggi, i barbari incontrano una serie di figure che oscillano tra il simbolismo e la demenza regionalistica, dal marinaio ligure al truffatore toscano all’insegnante di scuola elementare napoletano, e tutti, regolarmente, nessuno escluso, li fregano in qualche modo, approfittando del fatto che i barbari stessi sono i primi e forse gli unici a credere di essersi davvero imbarcati in un’avventura epica alla conquista di Roma. Attila, o Ardarico, o Diego Abatantuono, come preferite, inquadra ogni evento, ogni incontro, ogni momento nella cornice della sua stessa leggenda, e la seriosità con cui affronta i suoi nemici e dichiara le sue credenziali da guerriero fanno ridere (ed è una risata raffinata) tanto quanto fanno ridere “A come atrocità”, le discussioni sulla dimensione della Luna o Jimmy il fenomeno che cita i Monty Python en travesti dalle mura del castello dell’Abbadia di Vulci.
C’è qualcosa che invece non fa ridere per nulla e merita di essere citato, anche se c’è chi lo giustificherà usando espressioni come “erano altri tempi”, “negli anni Ottanta queste cose non erano offensive” o “Mario e Vittorio Cecchi Gori”. Uraia è interpretata da Rita Rusic, al tempo fidanzata-presto-moglie proprio di Vittorio Cecchi Gori: il problema non è tanto di nepotismo (anche perché non ci sono prove che sia stata scelta per il film solo in quando “fidanzata di”) quanto del modo in cui viene trattata Rita Rusic, e con lei tutte le donne del cast. Detta brevemente: Attila flagello di Dio è un film estremamente sessista e misogino, che ipersessualizza ogni personaggio femminile (Anna Kanakis compare desnuda per un minuto e poi sparisce per sempre, persino Iris Peynado/la maga Columbia è vestita come una pornostar) e non si risparmia battute sullo stupro o sul fatto che le donne non dovrebbero pensare. C’è poco da discutere, insomma, solo da constatare che, se è vero che per molti versi Attila flagello di Dio è un film che fa molto ridere ancora oggi, per altri è inevitabilmente e pesantemente invecchiato.
Resta un cult, nonché un inspiegabile (mezzo) flop, un film estremamente setoloso e il vero prequel di Il primo re.
(quest’ultima frase potrebbe non essere vera)