Attacco al potere è Die Hard alla Casa Bianca
Attacco al potere è quello che succede se i terroristi non attaccano un grattacielo ma il centro del potere americano
Ve l’avevamo già detto a ottobre scorso (quindi almeno tre lockdown e cinque DPCM fa) e ora che uno dei suoi emuli, Attacco al potere, sta per passare in TV lo ribadiamo: Die Hard non è solo un film, è un genere a sé. Un sottogenere, se ci tenete alla pignoleria: è un action, certo, ma basato su due/tre regole semplicissime che lo distinguono dal resto della famiglia. Regola numero uno: la location dev’essere unica. Un grattacielo, un aereo, Alcatraz... l’importante è confinare l’azione entro un perimetro ben preciso, e se è impossibile fuggire ancora meglio. Regola numero due: nei film alla Die Hard i rapporti di forza sono sbilanciati a favore dei cattivi – in altre parole, la situazione è “uno contro tutti”, secondo il modello stabilito dall’antenato di Die Hard, Commando. Più l’“uno”in questione è quello che gli americani chiamano “everyday person”, meglio è: nei film alla Die Hard ci piace vedere l’eroe che trionfa non perché è il migliore, ma nonostante non sia il migliore. Regola numero tre: non esiste, bastano le prime due, a meno che non vogliate considerare una regola il fatto che il villain di turno dev’essere un cattivo bondiano, intelligente, affascinante, acculturato – regola stabilita da Alan Rickman ma che conosce le sue eccezioni, e dunque non è così importante come le prime due. Come si colloca dunque Attacco al potere in una scala da 0 a “erede di Die Hard”?
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Nel caso di Attacco al potere siamo nel 2013, un anno caratterizzato da... be’, da tante cose, ma per il nostro discorso ce ne interessano due. La prima è il fatto che al tempo era ormai qualche anno che Hollywood, sempre in cerca di potenze straniere da utilizzare come spauracchio di turno, stava spostando la propria attenzione dal Medio Oriente alla Corea del Nord. Il terrorismo islamico si era rivelato un terreno troppo spinoso per abbandonare i confini del semi-realismo alla Homeland e sfociare in territori più francamente tamarri, esagerati e pure di cattivo gusto. Al Qaeda non è divertente come, per dire, i russi, perché Al Qaeda non sta dall’altra parte dell’oceano ad accarezzare le sue testate nucleari e lanciare velate minacce, ma te la trovi sotto casa, nel quartiere, in centro città: nessuna persona sana di mente in America si sognerebbe mai di scrivere un trattamento tipo “Die Hard ma dentro le Torri Gemelle”, o “Die Hard alla maratona di Boston”.
La Corea del Nord, invece, era ed è ancora il nemico perfetto: distante, misteriosa, raccontata quasi esclusivamente tramite le azioni del suo leader, con un odio esplicito e urlato verso l’America, un arsenale nucleare a disposizione e l’idea che il Paese sia governato da un pazzo capace di tutto. Nel 2013 aveva già cominciato a spuntare qui e là (per esempio in G.I. Joe, o nel remake di Alba rossa), e Attacco al potere è un po’ la sua cerimonia di laurea. Cosa succederebbe se un gruppo di terroristi nordcoreani prendessero possesso della Casa Bianca? Entra qui in gioco il secondo discorso a cui accennavamo sopra: perché proprio la Casa Bianca, e soprattutto perché nello stesso anno uscirono due film con la stessa identica trama (terroristi che rapiscono il presidente nella sua dimora, appunto) e con l’unica differenza che quello che non è Attacco al potere, cioè White House Down di Emmerich, usa il terrorismo domestico al posto di quello che viene da fuori? La risposta la lasciamo a chi se ne intende davvero, dal canto nostro ci limitiamo a constatare che il 2013, il secondo anno della presidenza Obama, è stato un anno di grande paranoia a Hollywood, che finalmente aveva trovato il presidente ideale e che probabilmente viveva nella paura che il sogno durasse troppo poco.
Non sta a noi neanche dire se Hollywood avesse ragione o meno nella sua valutazione del 44esimo Presidente degli Stati Uniti; a noi interessa che otto anni la sua figura tornò prepotentemente al centro dell’attenzione dell’action americana, e in questo senso Attacco al potere supera Die Hard in termini di posta in gioco: nel film di Antoine Fuqua non c’è solo da salvare degli ostaggi, ma quello che i suoi connazionali considerano il capo del mondo libero.
La scelta di ambientare il film dentro la Casa Bianca, nella quale il presidente Aaron Eckhart rimane intrappolato insieme al suo staff, a parte del governo e ovviamente ai terroristi guidati dal misterioso Kang Yeonsak (Rick Yune), fa sì che Attacco al potere rispetti da subito la regola numero 1 dei film alla Die Hard. Certo, la Casa Bianca del film non è esattamente la Casa Bianca, solo una costruzione in CGI; Attacco al potere è stato girato con “solo” 70 milioni di dollari (White House Down ne è costati circa il doppio), e spiace dirlo ma si vede: gran parte delle sequenze ambientate dentro e intorno alla Casa Bianca sono state in realtà girate nei campi della Louisiana (come potete leggere qui), e l’ambiente urbano aggiunto in post-produzione. Pochissimo di quello che si vede nel film esiste veramente, e fin troppo spesso la CGI, che ormai ha quasi dieci anni, mostra il peso dell’età. Il cuore però è al posto giusto: Attacco al potere è un action monolocation, come dice la Bibbia secondo John McTiernan.
La seconda regola è incarnata da Gerard Butler, ex agente segreto ed ex capo della scorta del presidente caduto in disgrazia in seguito a un incidente che ha visto coinvolta la First Lady e ridotto quindi a lavorare dietro una scrivania. Gerarad Butler (cioè Mike Banning, il personaggio non si chiama “Gerard Butler” purtroppo) rimane involontariamente coinvolto nell’attacco (passava di lì), e si ritrova chiuso dentro la Casa Bianca, solo e braccato dai terroristi. Siccome però Gerard Butler è un ex ranger divenuto agente dei servizi segreti con una gran voglia di farsi perdonare dal presidente, ecco che la sua scelta è quella di rispettare la seconda regola di Die Hard: da solo, armato fino ai denti, silenzioso come Predator e capace di uscire dalle fottute pareti come uno xenomorfo, Mike sgomina i terroristi, salva il presidente, salva suo figlio e incidentalmente salva anche il mondo. Non crediamo che quanto scritto nella frase precedente costituisca uno spoiler: siamo sicuri che avete visto abbastanza action alla Die Hard da capire come il finale Attacco al potere dopo quindici/venti minuti al massimo.
Rimane quindi l’esecuzione, non solo nel senso della pena capitale che il nostro eroe Mike somministra a un numero sempre crescente di nordcoreani che se la sono presi con l’agente dei servizi segreti sbagliato, ma anche nel senso di quello che fa Fuqua con la macchina da presa per tenere alta la tensione e intrattenerci mentre vaghiamo insieme a Gerard Butler per i corridoi della Casa Bianca in cerca di gente a cui sparare. In questo il regista di Training Day non si tradisce: pur appesantito dall’eccesso di CGI brutta e da una certa tendenza ad ambientare le sparatorie in ambienti bui e claustrofobici dove la confusione regna sovrana, Fuqua riesce a dare ad Attacco al potere un’energia, e pure una bella dose di violenza esplicita e disturbante, che soffoca tutte le considerazioni sui difetti del film. E ce ne sono, a partire da una sovrabbondanza di quelli che solitamente si chiamano “buchi di trama”, e che rendono tutto il piano dei terroristi, e la reazione del governo americano, una sequenza di idee sceme che non potrebbero mai funzionare e che ti portano a chiederti, una volta finito il film, “che cosa ho appena visto?”. Pazienza, fa parte del gioco: finché la tensione rimane alta ci interessa poco farci domande tipo “possibile che il sistema missilistico di deterrenza contro attacchi nucleari che si attiva con tre PIN separati non abbia un meccanismo di sicurezza che blocca tutto se uno dei tre PIN viene sbagliato più di tre volte di fila?”.
Il punto è che a Fuqua questi dettagli non interessano: lui vuole solo prendere un tizio divorato dai rimorsi e dal rancore e dargli la possibilità di redimersi agli occhi del suo presidente salvando lui e pure la pace nel mondo a colpi di pistola, fucile, mitragliatrice, lanciarazzi. Nonostante gli enormi difetti, insomma, che gli impediscono anche solo di avvicinarsi al titolo di “erede”, Attacco al potere si merita ampiamente un 6 sulla scala-Die Hard.