Asteroid City e l’evoluzione di Wes Anderson: dove vuole portare il suo stile?

Difficile per Wes Anderson essere più rigoroso di quanto fatto con Asteroid City. Allora dove andare con lo stile in futuro? Come superarsi?

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Immaginatevi che fatica di essere un personaggio del più recente Wes Anderson. La prima cosa da accettare è di non poter essere il protagonista. Non il solo, per lo meno. Ognuno ha il proprio spazio ben definito da non sforare. Un confine ben segnato sul set che non deve configgere con quello di qualcun altro. Tutti sono primedonne, ma nessuno riesce veramente a emergere più degli altri. A svolgere questa funzione di controllo è la scenografia. Ci sono dei luoghi, nei film di Wes Anderson, che imprigionano i personaggi come fantasmi. I clienti del Grand Budapest Hotel esistono solo all’interno di quelle stanze. Non ce la si fa ad immaginarli fuori. Così anche la redazione del French Dispatch deve sempre ritornare negli uffici in cui si compone il giornale, dopo aver esplorato il mondo. 

Nell’isola dei cani la trappola è l’isola, nel Treno per il Darjeeling è negli scompartimenti che i tre fratelli evolvono il loro rapporto. Il mondo di Steven Zissou è il suo sommergibile. Quello di Asteroid City è la città dell' asteroide dove un gruppo di persone si ritrova quasi per caso ed è costretta a rimanerci per via di un lockdown a seguito di un particolare avvistamento. Nel nuovo mediometraggio La meravigliosa storia di Henry Sugar, presto in arrivo su Netflix, i personaggi sono intrappolati nella struttura stessa della trama, organizzata a scatole cinesi.

Per essere personaggi di Wes Anderson bisogna accettare di poter godere di solo un’emozione per inquadratura. Si può essere felici e tristi in pocchissimo tempo, ma non si può farlo nella stessa inquadratura. Perché per il regista quello che loro provano è meno importante di come lo provano. I personaggi di Wes Anderson non conducono la storia, sono invece lì, belli preparati, a reagire a ciò che le inquadrature gli sottopongono. 

Il senso di Asteroid City è nel suo stile

In Asteroid City, presto in arrivo sugli schermi, il regista continua questo patto fatto con le persone che popolano il suo mondo, e con gli spettatori. La promessa è di essere belli, di apparire perfettamente integrati in un universo matematicamente impostato a partire dai colori e dalle simmetrie (o da vistose asimmetrie, come una superstrada non finita sullo sfondo della città). Per lo spettatore resta l’esperienza più radicale possibile del potere della forma. Di uno stile che contiene il senso stesso del film, la sua ragion d’essere. Il contrario di tutto quello a cui siamo abituati. 

C’è stato un periodo, che potremmo datare senza eccessiva precisione nell'arco di 5 anni dal 2007 al 2012, in cui il cinema di Anderson era equilibrato al 50-50 tra forma e sostanza. Astrazione ed emozioni. Il suo capolavoro, Fantastic Mr. Fox, insieme a Il treno per il Darjeeling, sono esempi chiari di quanto era potente questo equilibrio, di come riusciva ad essere personale e al contempo generoso verso chi guarda. Poi, man mano, l’interesse si è spostato altrove. Moonrise Kingdom inquadrava solitudini. Le storie intrecciate sono diventate poi stanze del Grand Budapest Hotel, pagine di dispaccio, esistenze immobili in attesa di un evento cosmico. 

Il tutto filmato con la perfezione formale di uno stile che ha iniziato a costruire sin dal terzo film della sua carriera (I Tenenbaum). Alzi la mano chi vede margini per perfezionarlo ancora nella sua ossessione per i dettagli, per la composizione e i colori. Nessuno. 

Allora cosa può fare di più Wes Anderson?

Proprio mentre si è attraversata questa che qualcuno chiama crisi creativa, ma che in realtà è più una crisi di consenso sulle sue scelte narrative estreme si è capito molto di quello che vuole Wes Anderson. Gira in live action, ma in realtà la sua ricerca è sempre più vicina al linguaggio dell’animazione. In Asteroid City ci sono situazioni simili a quelle di Wile E. Coyote e Road Runner!

Wes Anderson è un regista cinematografico, solo perché il teatro ha dei limiti temporali e spaziali che il montaggio invece riesce a superare. Il suo cinema è però performance pura, ridotta all’osso. È scenografia, attori e riflettori. C’è tantissimo del linguaggio teatrale nella sua messa in scena. Gli sfondi cambiano perché qualcuno li sposta, ci sono narratori su narratori, ogni cosa ha una sua collocazione ben precisa e concordata. Anche la presenza di un cast sempre più nutrito di star viene proprio da questo aspetto. Deve essere bello essere suoi attori (molto meglio che essere suoi personaggi). Recitare per lui è una sfida difficile che stimola a creare il personaggio dalla sottrazione. Solo i più bravi ce la fanno (e infatti quando un attore non funziona in un suo film stride molto di più che in una pellicola normale). Così solo i più bravi lavorano con lui.

Animazione e teatro entrano in un formalismo radicale che sta imprigionando il suo autore. Era originale, è diventato imitabile. Era sorprendente, è diventato esattamente ciò che ci si aspetta. Lui non ha cambiato la strada intrapresa col consenso generale, è mutata semmai la nostra percezione rispetto alla meta. Perché questa meta, probabilmente, è già stata raggiunta qualche film fa. Personalmente direi con Grand Budapest Hotel, il film con cui ha raggiunto il rigore visivo massimo e il titanismo nella ricerca dei volti che ha poi replicato in tutte le opere successive. 

Cosa si fa quando un regista alla ricerca della sua voce la trova e la lavora fino a che non si può fare di più? Da quel momento tutto ciò che verrà dopo sembrerà una copia sempre meno interessante. È probabile che questa domanda se la sia posta anche Wes Anderson stesso. 

La risposta viene da Roald Dahl

È interessante constatare che due dei suoi migliori film, Fantastic Mr. Fox ed Henry Sugar, hanno in comune Roald Dahl. Una fantasia libera che incontra una fantasia rigorosa. La chimica è perfetta. Come punto di aggancio c’è la loro impostazione minimale, così precisa nel dire solo l’essenziale con una precisione da sillogismo logico.

Il racconto per l’infanzia non sacrifica un significato, lo rende semplicemente più piccolo, alla portata di tutti. In una filastrocca il ritmo e le rime sono fondamentali quanto (se non di più) le parole che vengono pronunciate. Allo stesso modo nel cinema di Wes Anderson le inquadrature e i movimenti sono concorrono al significato più di quello che succede all’interno dell’immagine stessa.

Con La meravigliosa storia di Henry Sugar, che dura poco meno di 40 minuti, Anderson è andato a sottrarre il tempo alla sua visione. L’impostazione è quella ben nota. Solo che questa volta non può espandersi nella troppo abbondante durata di un film, ma deve stringersi, diventare essenziale. Due indizi non fanno una prova, ma aiutano a capire cosa potrebbe avere in mente un regista che già con The French Dispatch aveva provato ad auto limitarsi, creando dei confini da mediometraggio nelle tre storie che compongono il film. 

Non si può avere una simmetria maggiore, degli attori migliori, una palette di colori più suggestiva di quanto già fatto. Allora Wes Anderson può provare a fare un processo inverso: a prendere quel che vuole dire e a cucirgli intorno un vestito strettissimo, essenziale. Ridurre il tempo del racconto per potenziare la capacità comunicativa dello stile. Il cinema di domani del regista potrebbe partire proprio dalla constatazione che una singola inquadratura ha in sé molto di più di quanto faccia il suo intero film (spesso insopportabile quando supera un'ora di durata)! Allora la ricerca potrebbe essere proprio in questo senso: ridurre il numero di immagini montate insieme e raggiungere un minimalismo radicale anche nel tempo. Riuscire insomma ad andare nel nucleo essenziale del racconto, a comprimere il più possibile nello spazio più piccolo. Proprio come in una filastrocca o un racconto per bambini.

Forse è questo che Wes Anderson chiederà ai suoi personaggi in futuro: di essere discreti e sintetici, di trovare il proprio spazio e restarci dentro. Di costruire rime visive, e di donarsi al film in ognuno dei pochi fotogrammi che gli sono concessi nella speranza di diventare indimenticabili. Non uno in più. Non uno in meno. Allo spettatore il compito di fermare l’inquadratura e farsi raccontare una storia diversa da ogni dettaglio. 

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