Assassins è un film che non sa di molto

Assassins di Richard Donner non ha nulla di veramente sbagliato, ma si fa dimenticare con estrema facilità

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Questo speciale su Assassins fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla vita l’ho imparato da Sylvester Stallone.

Assassins è uno di quei casi di studio che dimostra come non sia necessario sbagliare tutto quanto per girare un film dimenticabile. Sulla carta il film di Richard Donner ha tutto quanto al posto giusto. Richard Donner stesso, innanzitutto: affidargli un action thriller nel 1995, dopo averlo visto dirigere l’intera trilogia di Arma letale, era come chiedere a Bruce Willis se se la sentisse di fare il protagonista di un film di terrorismo ambientato in un grattacielo. La squadra di scrittura: le Wachowski (che provarono a farsi togliere il nome dai credits, fallendo, ma che insieme ad Assassins vendettero anche la sceneggiatura di Matrix) e Brian Helgeland, uno che in portfolio ha roba come L.A. Confidential e Mystic River. Il direttore della fotografia di Altman, Spielberg, De Palma e Woody Allen tra gli altri, Vilmos Zsigmond.

E poi il cast. Stallone che nonostante Lo specialista era ancora sulla proverbiale cresta dell’onda. Antonio Banderas, in rapida ascesa, tra La casa degli spiriti, Intervista col vampiro e, lo stesso anno di Assassins, Desperado. Julianne Moore, anche lei a un passo dal diventare una star. Quello di Donner è il genere di film che sulla carta, se raccontato in tutte le sue componenti, fa esclamare all’interlocutore “come mai non ne avevo mai sentito parlare?!”. Tranquillo, interlocutore: non sei l’unico, come dimostrano gli 80 milioni di incassi a fronte di un budget di 50.

Assassins è, come suggerisce il titolo, la storia di due assassini, nella quale viene innestato un po’ forzosamente un elemento romantico utile a inserire l’irrinunciabile star femminile e a complicare più o meno inutilmente una narrazione di una semplicità disarmante. Sly è Rath, un killer prezzolato alla fine della sua carriera; il migliore, che vuole andare in pensione. Banderas è Bain, un killer prezzolato all’inizio della sua carriera; vuole diventare il migliore, mandando in pensione anticipata l’attuale campione. Il film è tutto qui: due persone che di mestiere ammazzano altre persone, che per oltre due ore provano ad ammazzarsi a vicenda.

Come detto, però, a rendere il tutto più intricato c’è l’identità del bersaglio che entrambi gli assassini inseguono – perché non sia mai che smettano un attimo di lavorare, anche quando stanno provando a farsi la pelle a vicenda. Detto bersaglio è Electra (Moore), una hacker che si firma con due occhi di gatto assolutamente non ispirati alla locandina di Cats e che diventa l’inevitabile love interest di Sly. Non è importante capire perché il nostro killer se ne innamori o anche solo perché decida di non ammazzarla: la sua presenza serve per complicare le cose e rendere intricati anche i piani più lineari dell’uno e dell’altro assassino.

Il problema di questa storia dal respiro internazionale è che si regge esclusivamente su singoli momenti e sulle prestazioni dei protagonisti. Non tanto Moore, che è efficace senza eccellere, quanto i due Assassins: l’unico modo per consigliare il film ai non completisti stalloniani è dire “Banderas e Sly sono molto bravi”. Il primo è in overacting costante come si richiede a un villain, e prende molto sul serio la sua interpretazione di un personaggio non serio. Il secondo, per contrasto, è uno Stallone volutamente in minore, il genere di protagonista che è troppo vecchio per queste stronzate – quello che è più che altro infastidito dall’ostacolo che si è appena frapposto fra lui e la meritata pensione.

Per cui i siparietti tra i due funzionano, e presi singolarmente danno l’impressione che Assassins sia un film con una personalità molto più spiccata di quella che invece dimostra per il resto del tempo. Il problema più grosso, come già ribadito più volte, è che è inutilmente intricato: succedono troppe cose delle quali non si sente il bisogno se non per allungare lo screentime. Aggiungeteci che Donner è insolitamente pigro nelle sequenze d’azione (il finale in particolare ha un ritmo glaciale per essere, appunto, un finale), e che Moore è poco più di una funzione narrativa, e otterrete un film che si limita a esistere. Non ha nulla di brutto, fuori posto o sbagliato: è solo pesato male, troppo complesso per far brillare davvero i due protagonisti che, per parte loro, ci mettono tutto quello che hanno.

È un film, insomma, come ce ne sono tanti, certo, ma senza dubbio un film.

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