American Pie, rivisto oggi

American Pie, per quanto spesso molto divertente, è un film per incel, e nessuno ce lo toglierà dalla testa

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Questo articolo fa parte della rubrica Rivisti oggi

Togliamoci subito il pensiero: American Pie è un film per incel, o lo sarebbe se fosse uscito oggi. Essendo uscito invece 26 anni fa, quando il termine era appena stato inventato e non aveva la stessa notorietà di oggi, è più che altro un precursore, un trailer di quello che sarebbe poi successo negli ultimi quindici anni in particolare. È un film che parla di un gruppo di adolescenti convinti di non riuscire a scopare fare all’amore perché il mondo li odia, e soprattutto convinti di meritarselo, l’amore, per il semplice fatto di aver voglia di farlo in quanto adolescenti ormonati. Che poi il film insegni, almeno a qualcuno di loro, che ci sono modi meno tossici e più arricchenti per entrare in contatto con l’altro sesso è solo parte di quello che ci si aspetta da una commedia romantica, per quanto volgare e politicamente scorretta. Resta il fatto che American Pie è un film che ci chiede di empatizzare e fare il tifo per dei ragazzi che pensano sia una buona idea nascondere una telecamera e filmare di nascosto una ragazza che si sta cambiando in camera di uno di loro.

American Pie e quella sana voglia di s

Siamo stati un po’ duri nel paragrafo introduttivo, ma è innegabile che molte delle soluzioni narrative di American Pie, che al tempo trovavamo buffe anche per il loro essere volgari e addirittura immorali, siano invecchiate parecchio male: dall’omofobia diffusa al già citato episodio del video segreto, passando per il modo in cui tutti i maschi del film, dai protagonisti all’ultimo dei personaggi secondari, parlano del sesso e delle donne, c’è la forte sensazione di stare guardando un film di un’altra epoca (quale forse è, effettivamente). Una volta indossati questi occhiali, però, ci si rende conto che tutto sommato il film di Paul Weitz ha una sua sincerità e una sua voglia di essere genuino e “vero” che hanno poi contribuito a costruirgli uno status di classico.

American Pie è il diario di un adolescente in piena tempesta ormonale, o meglio di alcuni adolescenti in queste condizioni. E tutti i maschi che sono stati adolescenti hanno quantomeno pensato, durante quel periodo, delle cose orribili e sessiste (non entriamo nel discorso del “perché” ma c’entra la parola con la P); poi magari non le hanno mai pronunciate ad alta voce o messe in pratica, ma quello è il punto dell’adolescenza: imparare a riconoscere le pessime idee e a dimenticarsele invece che applicarle. E il film di Weitz prova a fare questo: dare voce ai tremendi monologhi interiori che ti attraversano quando hai sedici anni e anche le peggio cose che dici vengono rinforzate dai tuoi coetanei che ridono, scherzano, approvano e fanno branco. Cioè: non è American Pie che è orribile e tuttofobo, lo sono i suoi personaggi; il film in sé fa il possibile per raccontare, non tanto per giudicare.

La mamma di Stifler

C’è poi un altro discorso da fare: i ragionamenti fatti fino a qui sono roba moderna, contemporanea, che nel mainstream del 1999 non erano proprio considerati, figuriamoci discussi. E quindi, il vero motivo per cui American Pie è diventato un film di culto è che è pieno di trovate alla Animal House, brevi, ficcanti e spesso indimenticabili. Altrettanto spesso di livello bassissimo, intendiamoci: il fatto che Finch abbia questo problema di non riuscire a fare la cacca a scuola, e il trasformarlo in una gag ricorrente, è umorismo di super-base, ma è anche indiscutibilmente efficace (e reso ancora più efficace, se chiedete a noi, nella versione italiana, dove il soprannome “Shit-brick” è stato tradotto nel magnifico “Pausammerda”), ed è, volenti o nolenti, una delle cose che ci si ricorda ancora a distanza di anni.

Nel senso: American Pie è il film che ha dato la notorietà definitiva al termine “MILF” (e incidentalmente ha ucciso “cougar”), e “la mamma di Stifler” è ormai un meme che qualsiasi 30/40enne saprebbe riconoscere senza battere ciglio. Per non parlare della scena che dà il titolo al film, o di tutte le volte che entra in scena Eugene Levy e si mangia tutto quanto a colpi di carisma e tempi comici. Insomma, al di là dell’inopportunità di parecchie battute e situazioni, American Pie è una collezione di invenzioni comiche che sono rimaste nell’immaginario collettivo di una generazione tanto quanto, anni prima, John Belushi che spia da una scala le ragazze che si cambiano.

Bye bye miss American Pie

Canzone inspiegabilmente non presente nella colonna sonora, ma se vogliamo parlare di pezzi di film rimasti nell’immaginario collettivo, American Pie è una collezione di hit tardi Novanta che lo rendono un film guardabile anche solo con l’audio: diventa come un pomeriggio nel 1999 a guardare MTV e mangiare schifezze. Hole, Blink, Sugar Ray, Barenaked Ladies… c’è un buon motivo per riguardare il film di Paul Weitz anche se vi interessa l’archeologia del pop rock. Ragionamento che non vale, cambiando discorso ma non troppo, per il cast: rivisto oggi, quello che davvero manca ad American Pie è una certa verve e un certo carisma nei suoi protagonisti, che spesso si comportano senza mascherare il fatto di essere attori che recitano.

Jason Biggs ha la faccia giusta per il ruolo ma non è un protagonista indimenticabile. Chris Klein è una versione di Keanu Reeves a cui hanno succhiato via il talento e il carisma. Gli altri due… esistono. Tara Reid e Mena Suvari interpretano sostanzialmente lo stesso personaggio, e l’unica femmina che davvero spicca è la sottosfruttata Natasha Lyonne. Finisce che i personaggi più indimenticabili sono tutti più o meno di contorno: da Stifler alla Michelle di Alyson Hannigan, passando per il succitato Eugene Levy. Forse è anche questo uno dei segreti di American Pie: ti distrae con il contorno e non ti fa pesare troppo le cose orribili che sta dicendo o facendo. E alla fine non ci puoi fare nulla e ridi.

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