Il favoloso mondo di Amelie 20 anni fa ha rivisto il ruolo del colore nelle commedie

Il momento in cui anche le commedie sono entrate nel mondo dei grandi universi narrativi creati con la computer grafica

Critico e giornalista cinematografico


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Il favoloso mondo di Amelie 20 anni fa ha rivisto il ruolo del colore nelle commedie

Il cinema ha sempre costruito mondi immaginari e l’ha sempre fatto attraverso immagini. Oltre a rappresentare il nostro di mondo, a volte con impressionante realismo, ne ha sempre costruiti di nuovi e non solo nel remoto futuro o nel passato di fantasia, ma ha anche creato dei presenti alternativi. Quando nel 2002 Il favoloso mondo di Amelie finiva la sua corsa (l’Italia era tra gli ultimi paesi in cui uscì, per il resto del mondo è un film del 2001) con record di incassi, successo e influenza estesi fino anche ad oltreoceano, quello che tutti si trovavano davanti era un film che creava un mondo suo sopra al nostro, uno di fantasia, ripulito e tirato a lucido (Liberation all’epoca fu durissimo con il film, definendolo buono per Le Pen, perché rappresentava una Parigi etnicamente ripulita, quasi solo di bianchi e cultura tradizionale francese, senza contaminazioni) e la sua particolarità, tra le molte di una sceneggiatura che desiderava come prima cosa essere particolare, stava nella maniera in cui creava un mondo immaginario e nel genere in cui lo faceva.

[caption id="attachment_519611" align="aligncenter" width="1400"]La doppia vita di Veronica La palette cromatica di La doppia vita di Veronica di Kieslowski[/caption]

Il 2001 era stato un anno cruciale per la revisione dell’immaginario a colori del cinema. Se nel 1999 Matrix aveva avuto un successo mondiale con una storia fondata sulla color correction, sui verdi del mondo virtuale e i bianchi di quello reale, di fatto prendendo la tendenza sviluppatasi lungo gli anni ‘90 di ritoccare pesantemente la palette di colori dei film con una dominante chiara, il 2001 aveva da una parte visto Baz Luhrmann pompare il mondo colorato di successo di Romeo + Juliet per fare il suo film definitivo, Moulin Rouge, proprio raccontando una storia di colori, puntando su quell’elemento cruciale e su una dominante rossa e calda.

[caption id="attachment_519694" align="aligncenter" width="500"]angeli perduti Color correction e inquadratura di Angeli perduti di Wong Kar Wai[/caption]

Dall’altra aveva portato in sala Amelie, che prendeva la palette visiva di La doppia vita di Veronica (principalmente verde e giallo, con incursioni rosse forti e decise quando serve) ma anche quelle di Christopher Doyle per Angeli perduti e Hong Kong Express e la applicava a quella che di fatto era una commedia romantica.
Lui e lei si inseguono a Parigi, mentre lei cerca di risolvere le vite degli altri all’interno del suo quartiere, non sapendo risolvere la propria e cercando così di riempire un vuoto che pare incolmabile.

amelie motorino

Eppure in Amelie non c’era nessuna "prima volta", il cinema la color correction la conosceva da tantissimo tempo e Jean-Pierre Jeunet stesso ne aveva abusato in tutti i suoi film precedenti. Si trattava semmai di prendere qualcosa di già fatto e fargli fare un salto in un altro genere e in un'altra tecnologia. Era cioè il momento in cui il lavoro sui colori arrivava al cinema di massimo incasso e quindi al pubblico più ampio possibile. Anzi per essere precisi si trattava del momento in cui la color correction, anche ai massimi livelli, entrava nel reame del ritocco digitale e non analogico, in un film che ambiva a disegnare, ritoccare e gestire la realtà con il medesimo controllo totale che esiste nell’animazione (settore nel quale Jeunet si era formato).

amelie cuoreE Il favoloso mondo di Amelie in questo è cruciale anche perché alla fotografia c'era uno dei più grandi di sempre, Bruno Delbonnel poi andato a fotografare film di Tim Burton, dei Coen, e anche un Harry Potter. Di nuovo, il cinema in quegli anni aveva già lavorato e molto di ritocco digitale, ma Amelie era il primo grande film di successo a non appartenere ai generi classici (azione, fantascienza, horror, fantasy…) che unisse finto e reale grazie al digitale. Mostrando il cuore di Amelie che batte sotto i vestiti o la sua abat jour che si anima. Era una commedia romantica ambientata in un altro mondo e questo altro mondo era creato anche grazie al digitale.

amelie abat jour

Erano anni in cui Il Signore Degli Anelli tirava al massimo le possibilità di unione di computer grafica e reale, ma per l’appunto Amelie lo faceva in tutto un altro genere e quindi per tutto un altro pubblico. Il mondo dei cinecomic nel senso moderno del termine stava nascendo, il mondo del fantasy rinasceva e quello della fantascienza imparava anch’esso a creare “bibbie”, cioè universi narrativi più che singoli film. Amelie creava una realtà da cinema d’animazione e quasi da fumetto per un film che non ha mai aperto una saga ma che avrebbe potuto, visto come aveva posto le basi narrative e soprattutto visive per un universo a parte.

amelie bar

Di certo non sfugge a nessuno che gli elementi del successo di Il favoloso mondo di Amelie non erano solo visivi. Molto del merito va alla potenza dell’immaginario francese d’esportazione, fatto di musiche da secondo dopoguerra, grazia, decòr e tutto ciò che il resto del mondo si aspetta dalla Francia rimesso in circolo con originalità. Così si sfonda anche in America (e lo sappiamo noi che 10 anni dopo abbiamo fatto lo stesso con La grande bellezza). Come non è difficile vedere in Amelie la sublimazione di un modo di vivere i sentimenti, l’esaltazione dei piccoli piaceri eletti a personaggi, il racconto di un’interiorità fragile che prende i problemi di rimbalzo e il rinnovo di un modello femminile, quello asessuato ed estremamente aggraziato di Audrey Hepburn. in Audrey Tautou, donna/bambina, in cerca di affetto più che di amore. Senza contare la colonna sonora eccezionale di Yann Tiersen.

amelie sassi

Eppure oggi, a venti anni di distanza, è evidente che ci sia qualcosa nella gestione dei colori di Amelie e nella sua capacità di imprimere nell’immaginario collettivo un’estetica così chiara, che va a braccetto con quella maniera di rielaborare il passato che era la montante retromania del 2001. Quello in cui è ambientato Il favoloso mondo di Amelie è un presente/passato, cioè un mondo contemporaneo che però ha le caratteristiche del passato, un angolo di città rimasto ad un’altra era, in cui gli elementi di contemporaneità ci sono ma costituiscono una larga minoranza. Abbigliamento, tecnologia, scatole, giocattoli, interni, arredi, insegne e tutto sembra fuori dal tempo, sbagliato per il presente eppure reso stranamente credibile proprio da una color correction che sparava una saturazione seppia forte come non avevamo mai visto nel mondo analogico.

amelie blu

Tantissimi film da lì in poi l’hanno imitato, cioè hanno raccontato storie ambientate nelle nostre città ma in punti che sembrano un altro universo, grazie ad abbigliamenti, scenografie e trucco particolari. Nessuno è però riuscito ad avere l’impatto di Il favoloso mondo di Amelie. Se le tinte impossibili di La doppia vita di Veronica facilitavano l’ingresso in un mondo realistico in cui però un singolo elemento fantastico stranamente non stonava, la stessa tinta (solo più forte) di Amelie rendeva indiscutibile il presente/passato del film.
Spostando le immagini in un altro reame grazie ai colori era possibile affermare che quello non era il nostro mondo ma un suo parente prossimo, senza nemmeno dirlo, che quello era un mondo da sogno o, se si vuole essere più sofisticati, il nostro mondo visto attraverso gli occhi della protagonista che infantilizza tutto e lo rende una favola. Di fatto la creazione di universi narrativi a partire dalle immagini (e grazie al digitale) sfondava nella commedia romantica di massa.

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